
Italia
Quando la lingua non basta più a dire
In Italia quasi il 28% degli adulti è analfabeta funzionale. Non saper leggere non è solo una fragilità culturale: è una ferita civile che toglie voce, diritto, cittadinanza.
Ci sono povertà che non chiedono l’elemosina ma consumano la vita ogni giorno. Una di queste è la povertà delle parole. È sottile, difficile da nominare, ma esiste. Si annida nel modo in cui parliamo, leggiamo, scriviamo. Nella distanza tra ciò che proviamo e ciò che riusciamo a dire. È una povertà che non fa notizia, ma fa danno. E lo fa lentamente. Non si tratta solo di ignoranza. Non si tratta nemmeno di mancanza d’istruzione. È qualcosa di più profondo: è perdita di senso, smarrimento del linguaggio, incapacità crescente di nominare le cose. Le parole si accorciano, si svuotano, si indeboliscono. Tutto si dice, ma niente si comunica. Si leggono post, ma non si comprendono articoli. Si guardano titoli, ma non si ascolta la voce. L’Italia è tra i Paesi con il più alto tasso di analfabetismo funzionale in Europa. Secondo l’OCSE più del 27% degli italiani tra i 16 e i 65 anni è incapace di comprendere testi semplici, svolgere operazioni elementari, interpretare un’informazione di base. È un dato che pesa come piombo. È un popolo intero che rischia di vivere senza più capire il mondo scritto che lo circonda. Non è analfabetismo in senso classico. È analfabetismo di ritorno. Gente che ha studiato, che ha un diploma, che magari ha lavorato per decenni, ma che ha smesso di leggere, di scrivere, di pensare con parole proprie. Un italiano su tre sta scivolando fuori dal linguaggio. Lentamente, senza accorgersene. E quando perdi le parole, perdi tutto il resto. Perché se non sai dire un dolore, non puoi guarirlo. Se non sai nominare un’ingiustizia, non puoi combatterla. Se non sai spiegarti, non puoi chiedere aiuto. Se non sai leggere un contratto, un bugiardino, una bolletta, una sentenza, sei fragile. E chi è fragile è più facile da zittire. Da usare. Da escludere. L’analfabetismo funzionale non è solo un problema culturale. È una questione civile. Politica. Sociale. È una ferita aperta nella carne della democrazia. Come si può votare con consapevolezza, se non si comprendono le parole delle leggi? Come si può scegliere, se il linguaggio è inaccessibile, se la complessità è derisa, se il pensiero è semplificato fino a sparire? La scuola da sola non basta. Serve una educazione continua, un’alleanza culturale tra istituzioni, territorio, comunità. Serve restituire alle persone il gusto della parola, il piacere della lettura, il diritto alla complessità. Serve fare in modo che la lingua torni a essere uno strumento di libertà. Viviamo in un tempo in cui la parola viene ridotta a reazione, slogan, urlo. In cui si comunica per colpire, non per dire. In cui si scrive tanto, ma si dice poco. Il rischio è che il linguaggio perda la sua funzione originaria: essere ponte, legame, casa comune. Per chi scrive, per chi insegna, per chi comunica, oggi non c’è compito più urgente: restituire spessore al verbo. Ricostruire la grammatica delle relazioni. Rimettere in circolo le parole che curano, quelle che spiegano, quelle che nominano il dolore con precisione. Chi ha ancora voce deve usarla per chi non ce l’ha più. Perché la povertà delle parole è il primo passo verso tutte le altre. E se non la fermiamo, non resterà più nulla da dire. E nemmeno qualcuno disposto ad ascoltare.
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