Mondo
La linea del colore
13 Ottobre 2025
C’è una linea invisibile che attraversa la percezione del dolore umano.
Non è tracciata sulle mappe, ma nelle coscienze. È la linea del colore: quella che decide, spesso senza che ce ne accorgiamo, quali vite meritino empatia e quali restino sullo sfondo.
Vengono liberati gli ostaggi israeliani, “tornano a casa”, le telecamere si accendono, le voci si commuovono, i volti diventano nomi, storie, bambini riconosciuti. È giusto così: ogni vita salvata merita gioia, e chi è tornato dall’orrore va accolto con gratitudine.
Ma nello stesso momento, nello stesso spazio di tempo, migliaia di palestinesi soffrono tornando in una casa precaria — e per loro, quasi nessuna immagine, nessun nome, nessuna parola capace di attraversare l’indifferenza.
Questo squilibrio non è solo politico, è percettivo: è il frutto di un bias culturale profondo, antico, che distingue inconsciamente tra chi “appartiene” e chi no, tra chi somiglia a noi e chi è relegato nel registro del numerico, del collettivo, del sacrificabile.
Empatizzare con gli uni non dovrebbe significare rimuovere gli altri.
Eppure la linea del colore resiste: divide le vittime in riconoscibili e anonime, in “nostre” e “loro”.
Solo quando riusciremo a guardare oltre quella linea — a provare la stessa pena per un corpo israeliano e per un corpo palestinese, senza aggettivi, senza bandiere — potremo dire di aver compreso davvero il significato universale del lutto, e quindi della pace.
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