
Mondo
PALESTINA, laboratorio del capitalismo di guerra
Un recente rapporto ONU rivela il ruolo centrale delle multinazionali americane ed europee nella colonizzazione israeliana della Cisgiordania, che va avanti a ritmo incalzante approfittando del fatto che i riflettori della stampa internazionale si concentrano su Gaza.
Mentre la guerra infuria a Gaza, un rapporto delle Nazioni Unite rivela come aziende transnazionali partecipino attivamente alla colonizzazione economica della Cisgiordania, nell’impunità più totale.
Dietro ai bombardamenti, agli sgomberi e ai blocchi, in Palestina si combatte un’altra guerra: quella del capitale. L’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani conferma una realtà inquietante: multinazionali, spesso occidentali, investono nelle colonie israeliane, forniscono servizi ai coloni, sfruttano le risorse dei territori occupati. Un’economia dell’apartheid che prospera sulle macerie del diritto internazionale.
Un’occupazione che diventa industria
Mentre i bombardamenti su Gaza attirano l’attenzione internazionale, un altro fronte, più silenzioso, si intensifica in Cisgiordania: quello della colonizzazione economica. Il rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani documenta una preoccupante accelerazione nella creazione di zone industriali israeliane su terre palestinesi, spesso confiscate senza compensazione né consultazione. Presentate come poli di sviluppo, queste aree sono in realtà enclave coloniali, pensate per rafforzare il controllo israeliano sul territorio e marginalizzare ulteriormente la popolazione palestinese.
Le terre agricole palestinesi vengono riconvertite a usi industriali o residenziali destinati esclusivamente ai coloni. Il rapporto evidenzia come queste confische si basino su meccanismi giuridici israeliani che aggirano il diritto internazionale, dichiarando alcune aree come “terre statali” o “zone militari chiuse”, per poi trasferirle ai consigli delle colonie o a imprese private. Un processo che non è episodico, ma parte di una strategia sistematica di espropriazione.
Multinazionali in prima linea
In questo contesto, aziende straniere — attive nei settori dell’edilizia e delle opere pubbliche, dell’energia, del trattamento delle acque e delle telecomunicazioni — continuano a investire in questi progetti coloniali. Il rapporto cita esplicitamente diverse società transnazionali, tra cui:
– Motorola Solutions, che fornisce sistemi di sorveglianza e comunicazione utilizzati nelle colonie e ai checkpoint.
– Caterpillar, i cui bulldozer vengono impiegati per demolire case palestinesi e costruire infrastrutture coloniali.
– Airbnb, che propone alloggi in affitto nelle colonie israeliane, senza indicare chiaramente il loro status illegale.
– Booking.com, che elenca strutture situate nelle colonie, contribuendo alla loro normalizzazione turistica.
– General Mills, coinvolta tramite la sua filiale Pillsbury in una zona industriale in Cisgiordania.
– Heidelberg Materials (ex HeidelbergCement), che sfrutta cave su terre palestinesi confiscate.
– Elbit Systems, azienda israeliana di difesa, le cui tecnologie vengono utilizzate per sorvegliare e controllare la popolazione palestinese.
– DXC Technology, che fornisce servizi informatici a istituzioni israeliane operanti nelle colonie.
– JCB, produttore britannico di macchinari da cantiere, i cui mezzi vengono utilizzati per demolizioni e costruzioni nei territori occupati.
– Rafael Advanced Defense Systems, coinvolta nella sicurezza delle colonie e nello sviluppo di sistemi militari impiegati a Gaza.
Questi investimenti, tutt’altro che neutri, contribuiscono alla sostenibilità economica delle colonie e alla loro espansione, legittimando di fatto l’occupazione. Permettono alle colonie di funzionare come entità autonome, dotate di infrastrutture moderne, servizi esclusivi e accesso privilegiato alle risorse naturali.
Le infrastrutture sviluppate in queste aree — strade, reti elettriche, sistemi di irrigazione — sono progettate per servire esclusivamente i coloni israeliani. I palestinesi ne sono esclusi, spesso fisicamente impediti ad accedervi. Il rapporto cita casi in cui villaggi palestinesi vicini soffrono di carenze idriche, mentre le colonie dispongono di abbondanti risorse, gestite da aziende private. Questa segregazione infrastrutturale rafforza le disuguaglianze e cristallizza una logica di apartheid economico.
Gaza come schermo, Cisgiordania come cantiere
Nel rapporto il concetto di “distrazione strategica” è centrale. Mentre l’attenzione mediatica e diplomatica globale è catalizzata dalle operazioni militari su Gaza — con immagini di devastazione, crisi umanitaria e bombardamenti incessanti — in Cisgiordania si sviluppa un processo parallelo, meno visibile ma altrettanto sistemico: l’espansione infrastrutturale delle colonie israeliane. Questo processo non è casuale né reattivo, ma pianificato. Il rapporto evidenzia come, durante le fasi di escalation militare, le autorità israeliane accelerino l’approvazione di progetti edilizi, la costruzione di strade riservate ai coloni, l’ampliamento di zone industriali e l’installazione di sistemi di sorveglianza.
Queste operazioni sono rese possibili grazie al sostegno di attori privati, tra cui aziende transnazionali che forniscono tecnologia, materiali e servizi. Il contesto bellico, secondo il rapporto, crea una “finestra di opportunità” per consolidare il controllo territoriale senza attirare l’attenzione o la condanna internazionale. In altre parole, la guerra su Gaza diventa uno scudo mediatico e diplomatico dietro cui si intensifica la colonizzazione economica della Cisgiordania.
Il risultato è una crescente dualizzazione del territorio. Da un lato, le colonie israeliane si sviluppano come enclave moderne, dotate di infrastrutture avanzate, accesso privilegiato all’acqua, all’elettricità, alla rete stradale e ai servizi digitali. Queste aree sono progettate per essere autosufficienti e interconnesse, spesso con il supporto di aziende come Motorola Solutions (sistemi di comunicazione), DXC Technology (servizi informatici) ed Elbit Systems (sorveglianza e sicurezza). Dall’altro lato, le comunità palestinesi vivono in condizioni di isolamento, con accessi limitati alle risorse, mobilità fortemente controllata e infrastrutture carenti o danneggiate.
Il rapporto definisce questa configurazione come una “segregazione economica istituzionalizzata”. Non si tratta solo di una separazione fisica, ma di un sistema economico che distribuisce opportunità e risorse in base all’identità etnica e nazionale. I palestinesi sono sistematicamente esclusi dai benefici dello sviluppo, mentre i coloni — spesso cittadini israeliani o investitori stranieri — godono di vantaggi strutturali. Questa segregazione è rafforzata da politiche fiscali, normative urbanistiche e pratiche di esproprio che favoriscono l’espansione coloniale.
In sintesi, il rapporto mostra come la guerra non sia solo un evento militare, ma anche un dispositivo politico-economico. Serve a deviare l’attenzione, a legittimare misure eccezionali e a creare le condizioni per un’espansione territoriale mascherata da sviluppo. È in questo contesto che le multinazionali trovano spazio per operare, investire e trarre profitto, contribuendo attivamente a un’architettura coloniale che si riproduce giorno dopo giorno sotto il velo dell’impunità.
Il business dell’occupazione: silenzi, profitti e complicità
Ciò che emerge dal rapporto è l’architettura di un sistema in cui l’economia coloniale non si limita ad accompagnare l’occupazione: la struttura, la alimenta, la perpetua. Le multinazionali non sono spettatrici passive del conflitto israelo-palestinese — ne sono beneficiarie, talvolta istigatrici indirette. Fornendo tecnologie di sorveglianza, costruendo nelle colonie, sfruttando le risorse dei territori occupati, trasformano la guerra in mercato, la repressione in opportunità.
Ancor più grave è il silenzio complice degli Stati e delle istituzioni internazionali. Mentre le bombe cadono su Gaza, le famiglie vengono sfollate in Cisgiordania, i difensori dei diritti umani vengono ridotti al silenzio, le cancellerie occidentali continuano a firmare contratti, aprire mercati, proteggere i propri interessi. Il diritto internazionale viene invocato nei consessi ufficiali, ma calpestato nei corridoi delle trattative.
E i media mainstream, da parte loro, rilanciano narrazioni securitarie, occultano le dimensioni economiche, evitano accuratamente di nominare le aziende coinvolte. Il conflitto viene presentato come una fatalità, mai come un sistema. Eppure, questo sistema ha architetti, beneficiari, complici.
È tempo di spezzare questa catena di impunità. Di nominare le aziende, di chiamare in causa gli Stati, di sostenere le campagne di boicottaggio e disinvestimento, di restituire la parola ai palestinesi. Perché dietro ogni muro costruito, ogni drone venduto, ogni ettaro confiscato, c’è una logica di profitto. E dietro questa logica, ci sono scelte politiche. Il silenzio non è più un’opzione: è una forma di complicità.
ELENA RUSCA, 26 settembre 2025, articolo pubblicato sulla Newsletter di Puntocritico.info del 30 settembre 2025
Devi fare login per commentare
Accedi