Questioni di genere

Contro la violenza di genere isolare funziona?

È possibile slegare la giustizia dalla punizione?

6 Novembre 2025

«Come rispondere alla violenza evitando di ricorrere alla polizia e alla giustizia penale come unico strumento di risoluzione dei conflitti? È possibile slegare la giustizia dalla punizione?da un lato riconoscere l’inefficacia del castigo come unica soluzione, dall’altra ricercare la cura» (Giusi Palomba)

Milano è tappezzata in questi giorni da un tentativo di comunicazione “sociale” di ATM sulla questione della violenza di genere in previsione della giornata Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del prossimo 25 novembre. La campagna si compone di quattro soggetti che utilizzano nomi di alcune fermate della metropolitana: “Lotto contro la violenza sulle donne”, “Contro la violenza sulle donne gli uomini hanno un ruolo centrale”, “Scegli che tipo d’uomo essere”, “Isola chi fa violenza, non chi la subisce”.

Slogan d’impatto che cercano di colpire l’immaginario e la coscienza.

Ma sull’ultimo, dedicato alla fermata della lilla Isola è utile aprire un dibattito: “Isola chi fa violenza, non chi la subisce”.

E’ riferibile a quel paradigma carcerario e punitivo che tanto piace e fa presa, per cui è necessario allontanare dalla società e dalla quotidianità persone che hanno commesso dei reati o delle violenze.

Certamente è un paradigma rassicurante. Che sia anche efficace bisognerebbe proprio discuterne.

Si possono immaginare altri tipi di percorsi di fuoriuscita dalla violenza di genere ma anche di tutta l’altra violenza agita e subita nella nostra società?

Un punto decisivo della difficoltà a iniziare questo tipo di progettazione sta nel fatto che siamo poco abituati a pensarci in comunità, a sperimentare pratiche di azione collettiva di risoluzione di conflitti.

L’idea che possa esistere un mondo che preveda la trasformazione al posto della punizione è difficile, complessa e faticosa, perché siamo prigionieri della convinzione che i meccanismi di isolamento, punizione e detenzione siano gli unici possibili, una sorta di stato di natura.

Per aiutare a cambiare il paradigma è molto utile la lettura del libro di Giusi Palomba, La trama alternativa – sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere, Minimum fax.

In questo libro emerge forte la voce di chi sopravvive alla violenza come persona che ha il potere di decidere come reagire alla violenza subita, come operare nel contesto della sua guarigione, accompagnata nell’attuare dinamiche che sono sempre percorse in gruppo, non lasciando mai la persona da sola. Un processo di guarigione doloroso e difficile.

Contemporaneamente viene dato spazio al percorso della persona che ha agito violenza coinvolta in un percorso di presa di responsabilità, di coscienza e di guarigione che non è chiamata a fare in solitudine ma, egualmente, accompagnata da persone care e da persone professioniste. L’isolamento, l’abbandono, l’emarginazione sociale, la messa alla gogna, l’omertà, non portano ad altro che al ripetersi e al rinnovarsi della violenza; chi agisce violenza, al pari di chi la subisce, necessita di una rete di sostegno che la accompagni nel rendersi conto della violenza che ha agito e porti a evitare che l’atto possa ripetersi in futuro.

Per quanto possa essere istintivo abbandonarsi alla rabbia e al desiderio di ritorsione e di punizione, non è proprio da qui si deve partire.

Prospettive antipunitive, anticarcerarie, trasformative, consentono di scoprire che le persone non sono predestinate e condannate a ferire, né a essere vittime in eterno, ma possiedono in potenza le capacità di riparare, di guarire, di smettere di fare del male.

La domanda da cui partire è quella che la femminista bell hooks pone a Maya Angelou nel 1998, nel corso di un dialogo in cui le due autrici si ritrovano a parlare del caso giudiziario che ha coinvolto il pugile nero Mike Tyson, accusato di stupro, condannato a sei anni di prigione e scarcerato dopo tre. «Come facciamo a rendere una persona responsabile di un torto commesso, e allo stesso tempo a restare in contatto con la sua umanità quanto basta per credere nella sua capacità di trasformarsi?».

Il libro di Giusi Palomba parla «della necessità, prima ancora, di riconoscerci in comunità, perché chi subisce un abuso di qualunque tipo possa trovare sostegno, senza essere obbligat* a scegliere tra punizione o silenzio, senza più trovarsi di fronte alle violenze nei percorsi giudiziari, e allo stesso tempo senza più trovarsi di fronte al muro dell’omertà sociale, o nella condizione di dover cambiare abitudini, relazioni, modalità di vita, rinunciare a frequentare spazi e a volte anche essere costrett* a cambiare città. Ciò che più mi resta di questa lettura è un costante richiamo all’importanza di costruire comunità e su queste poter contare nella reciprocità, che è l’unica pratica che ci permette di costruire spazi di cura e tenerezza radicale e di poter, in fondo, sopravvivere» (Rachele Cinerari).

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