Il data scientist, mestiere di domani (e di oggi)

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15 Giugno 2016


Michele Barbera è il CEO di SpazioDati, startup dietro Atoka. Questo post è sponsorizzato da:

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Ultimamente è tornata a rimbalzare sui social media italiani una battuta provocatoria fatta nel 2013 da Dan Ariely, docente di psicologia ed economia comportamentale presso l’americana Duke University: “I big data sono come il sesso tra adolescenti: ognuno ne parla, nessuno sa davvero come farlo, ognuno pensa che tutti gli altri lo stiano facendo, così ognuno dice di farlo…”

In effetti l’era dei big data è solo agli inizi, quindi è normale che si fatichi a individuare tutte le possibili applicazioni di una tecnologia intrinsecamente così dirompente. E in realtà il suo potenziale è tale che oggi, forse, è impossibile anche soltanto immaginare la portata di questa rivoluzione, persino per il più creativo tra i tecnologi e il più profetico tra i romanzieri. D’altra parte Thomas Edison e H. G. Wells, pur con tutta la loro genialità, avrebbero potuto prevedere le conseguenze a lungo termine della rivoluzione dell’elettricità, smartphone e intelligenza artificiale inclusi?

C’è chi ci prova, a capire cosa faranno i big data da grandi (ok, mi rendo conto che la battuta non suona poi così bene…) Un nome su tutti: Forrester Research, società di analisi di mercato e tecnologia quotata al Nasdaq, che in un recente report ha cercato di valutare la maturità e le parabole di sviluppo di 22 tecnologie inerenti i dati, dall’analisi predittiva alla virtualizzazione dei dati (per scoprire che cos’hanno scoperto, qui il link a un articolo a riguardo di Gil Press, giornalista di Forbes).

In ogni caso, non serve aspettare il 2035 per capire che i data scientists hanno di fronte a sé un brillante futuro. Già oggi quella dei big data è un’industria reale e vitale, che inizia a dare risultati concreti. Molto concreti. I big data, per esempio, ci aiutano a combattere le epidemie, contrastare la criminalità urbana, monitorare il traffico, scandagliare milioni di pagine web. È una tecnologia che sta già cambiando in profondità il mondo economico e delle aziende. E non è difficile capire il perché.

Come in politica, anche nel business si dice sempre che “il sapere è potere”. Scientia potentia est, scriveva uno che di potere se ne intendeva parecchio, cioè Thomas Hobbes, ma già nella Bibbia si legge: “Un uomo saggio vale più di un uomo forte, un uomo sapiente più di uno pieno di vigore”. Io non credo di essere granché saggio, però oggi il vecchio aforisma latino è più vero che mai. In un mondo segnato da una fortissima competizione tra imprese, dalla volubilità dei mercati e dalla frammentazione dei consumi, le aziende hanno bisogno di una crescente quantità di informazioni per sopravvivere e crescere.

I big data sono dunque un asset cruciale. Non a caso le aziende ad alto o altissimo tasso di informazione stanno scommettendo sempre di più sul settore. Secondo un recente studio, in un pool di importanti aziende americane del settore assicurativo, finanziario, bio-sanitario e consulenziale, lo scorso anno oltre il 62% delle aziende aveva in cantiere un’iniziativa collegata ai big data, contro il 48,2% del 2014 e il 31,4% del 2013. Sono percentuali in linea con uno studio più vecchio, risalente al 2013, secondo il quale ben il 73% delle imprese del settore della formazione, il 70% di quelle della vendita al dettaglio e delle assicurazioni, il 68% di quelle dei trasporti e il 66% di quelle della salute avevano fatto degli investimenti (o contavano di farli nei successivi 24 mesi) per affrontare la sfida dei big data.

Sempre più aziende, peraltro, si stanno dotando di un Chief Data Officer (CDO), un ruolo che sino a pochi anni fa neanche esisteva. Nel 2015 le aziende con un CDO erano il 54%, mentre nel 2012 erano appena il 12%. Evidentemente, quello dei big data è un settore così strategico e complesso da necessitare di una funzione di governo ad hoc. O almeno così la pensano la grandi aziende statunitensi, che da sempre sono molto attente all’innovazione tecnologica. Ma quello che accade oggi in Silicon Valley o a New York, domani (o magari dopodomani) accade nel resto del mondo. E di aziende, nel mondo, ce ne sono davvero tante (solo in Italia, oltre sei milioni).

Ecco perché prima ho scritto che i data scientists hanno di fronte a sé un brillante futuro. Lo suggerisce la mia esperienza personale (nel team di SpazioDati i data scientist sono cruciali, ed è stato molto difficile trovarli, ma senza gente così la sales intelligence e la lead generation non si fanno). Lo dicono i numeri. Tanto è vero che la blasonata Harvard Business Review ha definito quella del data scientist «la professione più sexy del XXI secolo». Ecco perché se avessi un fratello teenager, gli consiglierei di studiare da data scientist.

 

 

Michele Barbera è il CEO di SpazioDati, startup dietro Atoka.

TAG: atoka, big data, cdo, data scientist, SpazioDati
CAT: Big data

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