Cronaca di quella serata finale. Dieci anni fa
Dovevo scegliere se invitare un po’ di amici e creare l’effetto curva nel mio salotto, oppure offrirmi all’abbraccio della mia poltrona Ikea, dialogando con il 16 pollici e la preziosa bottiglia di un Primitivo contadino che maturava per l’occasione.
Nel ’65 avevo due anni di vita, calciavo già il pallone ed ero stato immortalato con il ciuffo da Pappagone e il gagliardetto nerazzurro al collo, ma durante la finale dormivo insieme al mio ciuccio, fedele e martoriato. Vincere quella Coppa era quindi un momento mai vissuto, primitivo. E contadino come le mani, radici in subbuglio, che avevano spremuto il nettare che mi aspettava. Una crema quasi viola che ti regala un’allegria sommessa, o una saggezza leggera, alla quale pensavo, immaginandomi nel dopo, perché sapevo che i risultati possibili erano due, e quello per la gioia uno solo.
Le mie tre donne sarebbero state nell’orbita, distratte e distraendomi, con la più piccola stupita di vedere il papà che sembra il suo compagno di seconda elementare arrivato oggi in classe con le scarpe coi tacchetti.
L’ultima volta, nella partita di ritorno con il Barça, sono rimasto fermo, seduto sulla punta della poltrona, la schiena dritta, posizione ordinata e scomoda, quasi autistica, e non ho mai parlato, se non per dire ”Cazzo… cazzo… No… no… Dai Dai…”. E lei ogni tanto veniva vicino, si sdraiava su di me per una coccola; ma io restavo imbalsamato, dalla mia Inter stoica e decimata, nel senso che erano giusto dieci, e dal suo catenaccio, perfetto ma pur sempre un funambolo sul filo di seta che unisce due grattacieli. Fino al punto più vicino alla tragedia, che coincide con il gol di Piquet, quando mi ha chiesto, vedendo una smorfia nuova sul mio volto, con la sua voce piccola, timorosa di invadere un campo solenne: ”Ma papà, non stai bene?” Ovvio che non stavo bene, ma poi sono stato benissimo.
Non sapeva la figlia bambina di questa mia strana malattia del calcio. Perché nasce così grave quest’anno, per colpa e merito di Mourinho, questo Magellano nomade e conquistatore che brucia e abbandona, che anche quando non puoi dargli ragione ci pensa il sentimento. E poi l’orgoglio, e qualche piccolo, tenace pregiudizio: non ho mai tifato Inter con tutta questa vitalità, la stessa di un amore giovanile. E dopo anni di personaggi che fanno dichiarazioni alla stampa che sono pippe signorili, oppure violente, ma senza stile, il pensiero fisico del portoghese mi ha riconsegnato tra le braccia del tifo verace.
Prima di questa fase finale ho visto tutte le qualificazioni in salotto di casa mia, di quella che le mie tre ragazze chiamano Champion Sleep, perché quando c’è una partita se ne vanno a letto, per l’inverno, il buio e il freddo e quella nenia del telecronista che attraversa la casa, ninna nanna perfetta per chi apprezza solo il calcio contenuto nel latte.
Le altre partite che contano le ho viste solo, con mamma Rai e il Bagni che ti spiega il calcio con la fregola del tifoso nel bar sotto casa, ma uno di quelli che ha giocato in promozione.
Questo è però un sabato, e pure il primo che possa titolarsi estivo, e quel profumo dell’imbrunire che fa venire voglia di condividere pietanze e calici con un gruppo di amici pensando già al dopo: perché poi la partita termina alle 22.30, metti una mezza altra per festeggiare o maledire l’arbitro, se avessimo perso, e la notte sarebbe stata degna di essere proseguita sul terrazzo, a cielo aperto e le stelle come infiniti scudetti sulla bacheca del cielo.
Mauro abita a un chilometro da me, e insieme abbiamo visto la finale dell’anno scorso Barcellona/Manchester, alle due di notte, registrata grazie al suo contratto Fastweb. Quasi un destino, che è la coincidenza vista dagli inquieti, dover condividere questa volta la diretta vera e azzurra.
Lui tifa Torino, e non gli chiedo perché, visto che ho un amico che tifa Bologna e non ha saputo spiegarmelo; mentre con il Toro è facile, perché è stato Grande, come questa Inter, e il tuo tifoso può nascere e crescere ovunque.
Primo calice di prosecco, che raddoppio prima del fischio d’inizio, presentandolo da me imbottigliato e che ha avuto il tempo e il calore necessari a renderlo sicuro di sé, come questa Inter. Allo stappo buscia alla grande. Degno di un bauscia.
Con lui c’è Stefano, che non conoscevo. Le due mogli e madri delle rispettive figlie hanno preferito andare a godersi la loro complicità femminile senza adulti maschi tra le ovaie.
Stefano è l’unico interessato al risultato come me, si è presentato come è sa sempre l’Interista: scettico.
Quindi il fratello di Mauro, Alberto, con l’amico Daniele, che non tifa niente, e per il quale il calcio potrebbe anche essere abolito, come le comunità montane.
La giornata è tersa, e tesa come un tifoso qualunque, e le sfumature insanguinate all’orizzonte mi sembrano degne di una finalissima.
Si comincia e la partita sembra congelata, perfetta per dedicarsi a saccheggiare le pietanze, alzandosi e passando davanti al televisore. Nessuno sembra intenzionato a masticare, solo ingoiare e calare sorsi da 10cc l’uno. Tanto che la mia piccola figlia si dedica alla sostituzione delle bottiglie che si svuotano veloci come lo stadio di una squadra sconfitta in casa.
Intanto arriva l’ultimo, Nicola, un po’ in ritardo ma convinto che la partita non sia ancora iniziata: nella classifica degli estranei al gioco del football lui vince senza gareggiare. Alberto, che non sa nemmeno chi ha vinto il campionato quest’anno, si lascia comunque sfuggire una sofisticata analisi sul perché riteneva volontario un fallo. Daniele azzarda che l’Inter sembra aspettare qualcosa, tanto che Stefano lo guarda stupito, e Mauro interviene dicendo che ci fosse stato Ribery a sinistra sarebbe stato più bello. Per lui.
Nicola è appena arrivato da uno stage di Contact tango, è stanco e felice come Carmen Consoli, e vorrebbe parlare di tutto meno che di quella cosa che sta succedendo nello schermo. Lui è quello di famiglia, e anche l’unico ad avere portato del cibo: salmone fumato da mangiare così, giusto una spruzzata di limone, che viene infatti sdraiato sul tavolino al posto della salatiera della pasta fredda ormai ripulita. Il salmone, non Nicola.
Segna Milito.
Lancio da metà campo, lui anticipa di testa il malcapitato che lo dovrebbe curare e la appoggia con precisione sul piede di Sneijder che non deve far altro che metterla dove lo stesso argentino gli ha già suggerito, in profondità, e lo fa con il contagiri e Milito è solo davanti al portiere, e sembra calciare ma finta, poi quando l’estremo difensore è già altrove lo fa a mezza altezza, morbidamente. Mi alzo, alzo anche le braccia al soffitto, e poi le lancio insieme come se stessi battendo una rimessa laterale, e mi risiedo, senza proferir parola. Sono stato bravo, trattenuto, quasi tutta gioia interiore. Ognuno dei maschi snocciola il suo aggettivo superlativo preferito, per definire goal e giocatore in questione. A me piace dire Strepitoso e lo ripeto due volte di seguito. Daniele fa il falegname, ha però un passato da intellettuale, quindi è un ravveduto, ma dice: micidiale. Stefano, sobrio nonostante il vino, ma in pieno clima agonistico proferisce un essenziale ed efficace: bellissimo. Mauro si attiene alla geometria: perfetto. Alberto, che fa il fotografo ma ci tiene a mostrarsi disincantato si lancia in un: esecuzione incredibile.
Nicola su Milito non ha alcuna opinione.
Ma Diego decide comunque di fare il secondo passo di tango. Umiliato il suo controllore con un dribbling secco al limite dell’area, quelle cose che nessun difensore centrale che partecipa ad una finale di Champions dovrebbe mai subire, lascia senza speranza per la seconda volta il portierone teutonico con i guantoni aperti.
E qui è chiusa. È tutto. È troppo. È reale, ed è successo. Si sente che abbiamo vinto, che ormai stiamo andando verso l’incredibile, come piace ad Alberto, e io non posso trattenermi e corro via, in cucina, mi tolgo la maglietta, tanto nessuno può ammonirmi, apro la finestra del balcone e urlo Siiiiiiii, sommerso dal boato generale che sembra soffiare dagli alberi. Rientro e me la infilo, per tornare in tribuna, dove riconosco lo sguardo sprezzante della figlia grande e quello intimorito della piccola. Ma non ho tempo per giustificarmi adesso, devo chiudere questa finale e così il primo pensiero è quello primitivo, bottiglia che vado a prendere e stappo. Passano minuti dove sembra catenaccio per gli stolti o per i tifosi di altre fedi, ma è solo una manifestazione di forza, il mostrare il petto a chi hai lasciato con un filo d’erba come arma. Ora non sento più le parole degli altri, penso a come ci si senta a vincere la Champions dopo 45 anni, e penso alla gioia di Moratti, sopra tutti, e poi a Zanetti, il mio supereroe con una vita da Mulino Bianco, e verso due dita del vino a tutti, e il mio sorso lo tengo in bocca un po’, a colorarmi l’intero palato, prima di farlo scendere piano nell’istante esatto dei tre fischi, come dopo l’ostia della comunione. Novantatre minuti che non hanno deviato dal copione che speravo. Sul mio personalissimo cartellino il Bayern non doveva essere lì. Ma adesso sono contento che ci sia.
La mia, la nostra comunione, è compiuta. Guardiamo sullo schermo le immagini che entreranno nel film nella nostra vita: la coppa lasciata ai piedi della curva, indossata come faraonico cappello dal capitano, strappata di mano in mano come una donna generosa e bellissima. La carezza del Presidente sui capelli brizzolati del suo allenatore, il figlio adottivo che l’ha reso orgoglioso e che si stacca da quella stretta intima in mondovisione per darsi alle lacrime, questa volte vere, con la giusta smorfia di chi non sa più trattenerle. Io le sto trattenendo, invece, perché non sono solo e nemmeno in mondovisione quando mia figlia di sette anni mi si avvicina timidamente, quasi spaventata.
– Ma davvero è così importante il calcio, papà?
Le dico che i suoi compagni di scuola nell’intervallo giocano sempre a calcio, come si lamenta lei; perché due maschietti su tre rincorrono un pallone appena sanno camminare. Avrei dovuto continuare dicendole che la passione è irrazionale, beatamente stupida, anche ingannevole, ed è quella che ha trasformato in pochi minuti un padre pazzo di gioia in uno così pensieroso che sembra triste; perché non c’è niente, nell’essere campioni, che valga il momento e il desiderio di diventarlo. Ma ha solo sette anni, e non merita le perplessità sull’esistenza di un uomo di mezza età. In quel momento mi si avvicina l’altra figlia, la quindicenne, che dell’esistenza comincia a capirci qualcosa.
– Che pancia che avevi, papi, quando ti sei tolto la maglietta.
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