Di Zico all’Udinese, ovvero quando l’Arabia Saudita era l’Italia

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7 Agosto 2023

L’estate 2023 passerà alla storia come la stagione in cui la Saudi Pro League è venuta a fare shopping sul mercato calcistico europeo. Se sarà anche ricordata come l’inizio dell’irresistibile ascesa del campionato saudita, solo il tempo potrà dirlo.

Quello che intanto si può affermare con certezza è che l’inesauribile disponibilità finanziaria del fondo sovrano dell’Arabia Saudita ha per la prima volta invertito la direzione dei trasferimenti internazionali dei giocatori di calcio: l’Europa dismette il ruolo di unico polo di attrazione per i migliori pedatori al mondo e veste quelli di bacino di rifornimento per un’area (finora) sportivamente assai periferica.

Per quanto il presidente della UEFA Aleksander Ceferin abbia finora mostrato scarso aplomb di fronte all’imponente fuga di talenti, pronosticando per l’ambizioso progetto saudita un inevitabile fallimento e, anzi, consigliando paternalisticamente di investire nei vivai per far crescere i calciatori e gli allenatori locali – come se la Mahd Academy non fosse già una realtà consolidata -, il commento più sensato al nuovo fenomeno è che niente di nuovo appare sotto il sole: ciò che ha reso l’Europa il continente con la più alta densità di stelle del pallone non è stata (soltanto) la sua venerabile e risalente passione per il gioco, ma soprattutto la maggior ricchezza dei propri club. Sono stati i soldi ad attirare oltre Atlantico legioni intere di calciatori brasiliani, argentini e uruguayani, riducendo drasticamente il livello tecnico dei tornei sudamericani, e sono sempre stati i soldi a deprivare di qualsiasi opportunità di crescita domestica i movimenti calcistici africani.

Come è lecito aspettarsi in una società capitalista, è il denaro a stabilire i flussi delle merci e degli esseri umani (come i calciatori) che sono compra-venduti sul mercato del lavoro. Come un magnete dalla forza irresistibile, negli ultimi trent’anni il Vecchio Continente ha attirato competenze e saperi calcistici da ogni area del pianeta. È istruttivo notare che al punto di avvio di questo processo può a buon titolo collocarsi l’Italia e in particolare l’insospettabile Udinese, che quarant’anni fa si era da poco affacciata alla massima categoria e che al termine di una tormentata e spericolata vicenda riuscì a ingaggiare nientemeno che Artur Antunes Coimbra, meglio conosciuto come Zico. Quello che parve l’ingresso in pompa magna dei bianconeri nel gotha del calcio, il 7 agosto 1983, fu sancito dal successo nel primo Trofeo Zanussi grazie a un perentorio 3-0 ai danni del Vasco De Gama, dopo che due giorni prima gli uomini allenati da Enzo Ferrari avevano domato per 2-1 il mitico Real Madrid, proprio in virtù del contributo decisivo di un gol su punizione della stella carioca.

Per comprendere appieno la sensazionale portata dell’evento, occorre premettere qualche considerazione. In primo luogo, gli spostamenti dei calciatori da un paese all’altro non erano allora un’ordinaria abitudine come oggi. L’Italia aveva riaperto le frontiere solo nel 1980, dopo averle chiuse all’indomani dell’ignominiosa eliminazione da parte della Corea del Nord nella Coppa Rimet del 1966. Per i primi due anni, le squadre di serie A poterono schierare soltanto uno straniero. Dopo la vittoria ai Mondiali spagnoli del 1982, il limite salì a due, soprattutto a seguito di una vivace campagna di stampa, alla cui testa si era posto il Guerin sportivo: l’idea era che la venuta di campioni dall’estero avrebbe elevato il tasso tecnico del campionato, favorito di conseguenza il miglior sviluppo dei giovani dei vivai e incrementato la competitività degli undici italiani nelle coppe europee.

Era pur vero che in Inghilterra, in Germania, in Francia e soprattutto in Spagna, le squadre di club erano solite rafforzarsi con acquisti mirati di fuoriclasse stranieri e anche l’Italia, prima del 1966, era stata un autentico paradiso per diversi idoli degli stadi. Tuttavia, le migrazioni dei calciatori non erano così massicce, le squadre di club non erano neanche lontanamente paragonabili alle multinazionali di oggi e non era raro che le federazioni nazionali si opponessero, come potevano, all’esodo dei propri talenti. Ancora nel 1973, la Federcalcio tedesca contrastò con successo l’ipotizzato passaggio del bomber Gerd Müller dal Bayern Monaco al Real Madrid nella convinzione che il trasferimento avrebbe danneggiato la preparazione della nazionale in vista della Coppa del mondo che si sarebbe disputata in Germania l’anno seguente.

Negli anni ‘50, quando già Spagna e Italia pescavano copiosamente all’estero, potevano darsi reazioni oggi a dir poco impensabili: dopo che gli “angeli dalla faccia sporca” Omar Sivori, Humberto Maschio e Antonio Valentin Angelillo furono comprati rispettivamente da Juventus, Bologna e Inter, avendo trascinato l’Argentina alla vittoria della Copa America nel 1957, l’allenatore della Selección Guillermo Stabile li escluse dalla rosa per i Mondiali dell’anno successivo – non a caso, l’Albiceleste fu eliminata al primo turno. Quale selezionatore potrebbe fare oggi una cosa del genere?

Fino al 1970, tutti i convocati delle nazionali brasiliana, argentina e uruguayana per i Mondiali venivano dai campionati locali; nel 1974, Argentina e Uruguay convocarono sei “forestieri” ciascuna e il Brasile ne scelse un paio per la prima volta nel 1982 (erano Falçao che giocava nella Roma e Dirceu che militava nell’Atletico Madrid). A partire dalla fine degli anni ‘80, la percentuale di convocati provenienti da campionati esteri (principalmente europei) è salita intorno al 50%, mentre negli ultimi venti anni le rose delle tre grandi del Conmenbol sono per il 70-90% composte da giocatori che non giocano nel proprio paese.

Con sguardo retrospettivo, si può ben dire che l’avvio di questa tendenza è ben simboleggiata proprio da quell’amichevole estiva fra Udinese e Vasco De Gama. Ma come fu possibile che Zico vestisse la maglia di una misconosciuta compagine italiana di provincia, che aveva spesso la gran parte della propria storia fra la serie C e la serie B?

Cominciamo col dire che Zico era allora il più grande di tutti e aveva appena vinto il premio di miglior giocatore del pianeta – Diego Maradona era all’epoca un mero candidato all’ambito rango, ma il deludente Mundial spagnolo del 1982, che aveva concluso con una bruciante espulsione proprio nello scontro diretto con i Verdeoro, l’aveva posto ben al di sotto del rivale. Zico era inoltre il leader del Flamengo, che nel 1981 aveva trionfato nella Coppa Intercontinentale umiliando il Liverpool, e ovviamente della Seleçao, che sempre in quell’anno era venuta in Europa a “miracol mostrare” e in appena sette giorni aveva placidamente sottomesso a domicilio Inghilterra, Francia e Germania Ovest – sappiamo bene che quella sublime formazione si arrese soltanto all’ispirata nazionale di Enzo Bearzot sul prato arroventato del Sarrià di Barcellona.

L’Udinese invece era una provinciale “ambiziosa”, da poco entrata nell’orbita della Zanussi, il celebre marchio di elettrodomestici che negli stessi giorni aveva annunciato il licenziamento di 4.500 operai, provocando la levata di scudi dei sindacati e spingendo centinaia di tute blu a manifestare sulle strade del Giro d’Italia [1]. Lamberto Mazza, il patron di entrambe, intendeva puntare allo scudetto, con un progetto che univa l’esercizio del potere economico-industriale al fascino e all’aura proveniente dal più popolare degli sport, in una combinazione che con ben altre conseguenze avrebbe perfezionato pochi anni dopo Silvio Berlusconi, poi imitato con minore riuscita da Sergio Cragnotti, Callisto Tanzi e Vittorio Cecchi Gori.

Zico fu annunciato lo stesso giorno del ritiro di Dino Zoff

Il braccio destro di Mazza era il direttore sportivo Franco Dal Cin, che il 2 giugno 1983 annunciò il clamoroso acquisto del fuoriclasse brasiliano. L’incongruo accostamento fra il n. 10 e i bianconeri destò scalpore non solo per i motivi appena spiegati (in Francia, l’Equipe titolò: “Incredibile ma vero, Zico a Udine!” [2]), ma anche e soprattutto per le inedite modalità di finanziamento dell’operazione. Secondo il ds friulano, Zico sarebbe gravato sulle casse della società per il solo ingaggio (un po’ più di un miliardo di lire di allora), mentre la restante somma da versare al Flamengo (altri quattro miliardi abbondanti) l’avrebbe garantita un’agenzia pubblicitaria con sede a Londra in cambio dello sfruttamento dei diritti d’immagine del calciatore. Lo stesso Dal Cin dichiarò: «Per noi si tratta di un vero affare. Se l’Udinese pagasse sei miliardi sarebbe veramente una follia. Sia io che Mazza saremmo pazzi e irresponsabili, ma così non è» [3].

Nonostante la FIGC avesse bloccato l’acquisto ritenendo irregolare il pagamento del giocatore da parte degli sponsor, Zico sbarcò in Italia qualche giorno dopo. Consapevole delle proteste che erano scoppiate in Brasile, dove il presidente del Flamengo stava invano cercando i fondi per trattenerlo, il Galinho fece esplicito riferimento all’ingaggio da nababbo che gli era stato assicurato: «Sono qui per garantire ai miei figli e ai miei nipoti un futuro felice. Io ho dato tanto per il Flamengo, ora è venuto il tempo che a guadagnare sia io [4]».

Il direttore sportivo Franco Dal Cin e il presidente Lamberto Mazza

All’inizio di luglio, l’affare sembrò naufragare: la Federcalcio presieduta dall’avvocato Federico Sordillo dichiarò inammissibile il contratto per la posizione non chiara della società intermediaria e per la presunta mancanza di capitali da parte dell’Udinese. Ne scaturì addirittura una protesta popolare, con migliaia di persone che scesero in piazza XX Settembre a Udine, inalberando cartelli (“O Zico o Austria”) che minacciavano un comico ritorno all’Impero Asburgico [5]. Dopo un ovvio ricorso al CONI, un comitato di super-periti consigliò la Giunta esecutiva del massimo organo sportivo e il 23 luglio giunse l’agognato semaforo verde: Zico divenne a tutti gli effetti un giocatore dell’Udinese.

I tifosi in piazza a Udine

In agosto, il mini-torneo già citato portò nelle casse del sodalizio friulano un bel gruzzolo in incassi. Subito ci si affrettò a lodare la lungimiranza della dirigenza bianconera e il successo contro il Real Madrid di Stielike, Santillana e Gallego, nonché contro il Vasco De Gama, piegato anche grazie a una prova superlativa di Pietro Paolo Virdis, assomigliò al preannuncio di una stagione memorabile.

La serie A prese il via l’11 settembre. L’Udinese addirittura maramaldeggiò a Marassi, seppellendo il Genoa sotto un passivo di cinque reti, due delle quali ovviamente a firma di Zico. Quella giornata furono segnate ben 33 reti, che il Guerin Sportivo celebrò con un’iconica copertina che dava ragione a quanti avevano perorato la causa dell’aumento degli stranieri per una crescita della spettacolarità del campionato. Alla fine della stagione, la media-reti di 2,39 gol a partita sarebbe stata la più alta dal 1963.

La copertina del Guerin Sportivo dopo la prima giornata del campionato 1983-84

La Juventus si aggiudicò il tricolore, trascinata da Michel Platini che primeggiò pure nella classifica dei cannonieri. Zico gli arrivò subito alle spalle con 19 segnature, ma qualche infortunio e la mancata quadratura tattica della squadra impedirono all’Udinese di andare oltre un deludente nono posto, addirittura più indietro del campionato precedente.

L’anno seguente, vari guai fisici limitarono il fuoriclasse brasiliano ad appena 16 gare e a soli tre gol, che bastarono a stento a salvare i compagni dall’onta della retrocessione. Zico se ne tornò in Brasile, più ricco ma ormai privo dello scettro di re del pallone. Maradona glielo avrebbe definitivamente sottratto ai Mondiali messicani del 1986, che El pibe de oro conquistò in pratica da solo, mentre i carioca furono eliminati nei quarti di finale dalla Francia, anche a causa di un rigore mancato proprio da Zico.

Nel frattempo, i lauti compensi garantiti dalle società della Penisola attrassero in serie A i migliori rappresentanti di tutte le più grandi scuole calcistiche del globo. Arrivarono i brasiliani Sócrates, Careca, Cafu e Kakà, gli argentini Passarella, Maradona, Batistuta e Crespo, gli uruguayani Francescoli, Montero e Cavani, i tedeschi Rummenigge, Matthäus, Klinsmann e Völler, gli olandesi Van Basten, Gullit, Rjikaard e Davids, i francesi Zidane, Desailly, Deschamps e Thuram, gli inglesi Platt, Ince e Gascoigne, e innumerevoli altri. La sentenza Bosman abbatté le ultime barriere all’indiscriminata circolazione dei professionisti dello sport e per un paio di decenni in Italia si giocò il “campionato più bello del mondo”. Poi il primato passò alla Liga e alla Premier League, che a loro volta fecero incetta di giocatori provenienti da ogni latitudine.

Come si è già riportato, nelle cinque maggiori leghe europee, che oltre alle tre sopra citate includono la Bundesliga tedesca e la Ligue 1 francese, vengono ormai da anni schierati dal 40 al 60% di stranieri. Mai si sono alzate voci che accusano l’Europa di depredare i tornei nazionali degli altri continenti, come ora si fa con stizza all’indirizzo dall’Arabia Saudita. Se sono i prodromi di uno scontro che ridefinirà la leadership del calcio mondiale nei prossimi anni, la UEFA dovrà certamente adottare una strategia meno rozza e neo-coloniale di quella finora messa in campo, mentre la famiglia reale Al Saʿūd potrà essere spinta a modernizzare l’assetto politico-sociale del paese dal suo stesso disegno di installare in Arabia uno dei centri pulsanti dello sport globale, componente vitale e decisiva di una prospettata economia diversificata e non più dipendente unicamente dal petrolio.

 

[1] Cfr. l’Unità, 5 giugno 1983

[2] Cfr. La Stampa, 4 giugno 1983

[3] Cfr. l’Unità, 4 giugno 1983

[4] Cfr. l’Unità, 15 giugno 1983

[5] Cfr. La Stampa, 5 luglio 1983

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CAT: calcio

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