Il calcio può parlare di identità, storia e società

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8 Febbraio 2020

Alcune società calcistiche hanno un’identità più forte di altre e tifarle e appartenere al loro contesto costituisce un’esperienza che va oltre la sfera dello sport, fino a definire in parte anche l’identità della persona che tifa. Questo non succede per ogni società, nonostante in tanti sventolino il fatto di essere “più di un club di calcio”, e ci possono essere delle variazioni nel modo di appartenere a un club sia in relazione al tempo che al luogo: banalmente, tifare oggi il Celtic non ha lo stesso significato dell’averlo tifato a inizio Novecento e tifare il Liverpool da una delle vie adiacenti all’Anfield ha un valore diverso dal tifarlo da altri Paesi del mondo.

MILANO: RIVALITÀ DI CLASSE

Ci sono dei contesti che circondano le società di calcio che non possono essere ridotti alla pura sfera sportiva. Questi sostrati, talvolta, estendono la sfera d’azione di un club verso il campo della politica, del sentimento nazionale o dell’appartenenza a una specifica regione o quartiere, a volte caratterizzati anche da una sottocultura particolare. In passato, spesso, tifare una squadra o un’altra voleva dire appartenere a una classe economico-sociale o a un’altra. È sufficiente pensare alla rivalità delle squadre milanesi, dove il Milan rappresentava prevalentemente la parte popolare della città, mentre l’Inter quella borghese. Lo conferma Adriano Galliani in un’intervista a La Repubblica del novembre 2002:

“C’è una differenza storica chiara: il Milan è la squadra più vicina al popolo, l’Inter alla borghesia. È qualcosa che fa parte del Dna delle tifoserie, fatte le debite distinzioni: chiaro che poi in cent’ anni di storia certe cose si annacquano.”

Già qui si può notare come l’identità di una squadra possa cambiare con il tempo. Oggi, sarebbe assurdo valersi della distinzione popolo-borghesia nel cercare di interpretare l’identità di un tifoso di Inter o Milan.

SARAJEVO: IDENTITÀ NAZIONALE

Spesso il calcio veicola anche distinzioni nazionali. Questo accade spesso ancora oggi, ma penso sia più interessante tornare nel passato di una città che a causa delle distinzioni nazionali ha sofferto l’assedio più lungo della storia della guerra moderna: Sarajevo. Nei primi venti anni del Novecento, gli abitanti dell’odierna capitale della Bosnia-Erzegovina appartenevano a tutte le maggiori religioni monoteiste (Cristianesimo cattolico e ortodosso, Islam ed Ebraismo) ed erano divisi dal punto di vista etnico in croati, bosniaci musulmani, serbi ed ebrei. Le società di calcio rispecchiavano rigidamente le divisioni nazionali: il Barkohba era la squadra della comunità ebraica, il SAŠK di quella croata, lo Slavija di quella serba e il Đerzelez di quella musulmana.

L’importanza data all’appartenenza nazionale in quel periodo a Sarajevo derivava dal fermento culturale ottocentesco, nel quale il nazionalismo era una componente di rilievo, che si era sviluppato con netto ritardo rispetto ad altre zone dell’Europa. Ciò è dovuto al fatto che le prime idee nazionaliste erano giunte in Bosnia-Erzegovina solo intorno al 1870, attraverso l’influenza austro-ungarica che andava piano piano soppiantando l’immobilismo culturale dell’Impero Ottomano, cui Sarajevo apparterrà, solo formalmente, fino al 1908.

Nel 1921, però, venne fondata una società che mandò in frantumi le rigide divisioni nazionali del calcio sarajevese: il Fudbalski Klub Željezničar (“Il Ferroviere”). Il club rappresentava i ferrovieri della città e si dichiarava apertamente estraneo a ogni logica nazionale, pronto a dare il benvenuto a ogni individuo, di qualsiasi etnia, che avesse a cuore questa squadra. Il Željezničar è oggi una delle squadre più amate in Bosnia-Erzegovina, con un ampio seguito di tifosi. Nonostante dagli anni Novanta le frange del tifo siano schierate nazionalmente dalla parte bosniaco-musulmana, la società ha al proprio seguito un ampio numero di tifosi croati e serbi. Attraverso la storia di questi club, si può leggere anche la storia della città e dell’identità dei suoi cittadini. Dopo un periodo di irrigidimento e di divisioni nazionali a inizio Novecento, nella seconda parte del secolo l’unica società non schierata nazionalmente è diventata una delle più celebri del Paese, mentre sono tramontate quelle che esprimevano “requisiti etnici”: il Barkohba e il Đerzelez non esistono più, lo Slavija e il SAŠK navigano nell’anonimato. Dopo la guerra degli anni Novanta, il Željezničar è rimasto nel cuore di tutte le etnie coinvolte nel conflitto, ma, come detto, ha ricevuto un’impronta nazionale, portando sul proprio stemma i simboli della Bosnia-Erzegovina e caratterizzandosi per un gruppo ultras abbastanza nazionalista. Gli effetti della guerra sulla società sono stati devastanti e il calcio non ha potuto non risentirne.

11 minuti di Tom Watt che cerca di capire cosa significhi oggi il Željezničar per Sarajevo.

GLASGOW: PIÙ LIVELLI SOVRAPPOSTI

In alcuni casi la tematica politico-sociale e quella del sentimento nazionale si intrecciano fino a creare una contrapposizione ancora più radicale. È il caso del derby di Glasgow fra Celtic e Rangers. Anche qui è necessario guardare al passato e alla storia della città per comprendere una rivalità che di sportivo ha solo la manifestazione di superficie del gioco del calcio. Il Celtic è stato fondato nel 1888 in una chiesa cattolica, la St. Mary’s Church di Calton, e rappresenta la comunità irlandese e cattolica di Glasgow. Il Rangers FC, per contrasto, è la squadra della popolazione scozzese e anglicana della stessa città. La rivalità si sviluppa quindi su base nazionale e religiosa, come parte di un contrasto molto più ampio fra cattolici e protestanti, che investe anche la questione irlandese. La contrapposizione, però, è anche di natura economico-sociale. I cattolici di Glasgow erano in origine profughi irlandesi, giunti nella città alla ricerca di condizioni di vita migliori. La grandissima parte di loro apparteneva ai ceti più umili, sui quali le idee socialiste avevano maggiore presa. Il sostrato del Celtic si caratterizzava quindi per un’identità irlandese, cattolica e socialista. Al contrario, il Rangers rappresentava approssimativamente la popolazione più benestante della città, che spesso coincideva con la popolazione di religione anglicana e di idee unioniste e che nello scacchiere politico si schierava tendenzialmente a destra. La situazione era quindi inevitabilmente esplosiva sotto più punti di vista. L’Old Firm è diventato così uno dei derby più famosi nel mondo del calcio. Con il volgere del tempo, però, molte cose sono cambiate. Anche la popolazione di origine irlandese si è arricchita, ha messo radici in Scozia e la religione, come altrove, ha cominciato a perdere un po’ di terreno. Nonostante questo, i riflessi del passato si vedono ancora sugli spalti del Celtic Park: bandiere irlandesi, supporto a cause politiche di sinistra e anche qualche striscione a favore dell’IRA. Il contesto del Celtic è oggi un ambiente di sinistra, ma non mi sembra più molto legato alla religione cattolica. I cambiamenti nella società hanno lasciato il loro segno, anche se il passato non è stato dimenticato: il sostegno dei tifosi del Celtic alla causa palestinese, in nome delle somiglianze con la propria storia, ne è un esempio. Una relativa distanza dalle posizioni della Chiesa di Roma, invece, si può notare nella grande apertura della tifoseria del Celtic nei confronti del mondo LGBT, testimoniata anche da una coreografia del 2017.

LIVERPOOL: IL SOCIALISMO 

Un’altra società con un sostrato socialista è il Liverpool. La sua figura più iconica è Bill Shankly, che ha più volte definito il socialismo come una parte dell’identità della squadra. Liverpool è un centro industriale e un porto con un’ampia classe operaia che ha dato forma al contesto politico e sociale che circonda ancora oggi il club. In passato, questa identità era probabilmente più marcata e l’ambiente Liverpool sta oggi affrontando delle contraddizioni fra il proprio storico contesto socialista e il far parte di una macchina capitalista come la Premier League (e il mondo del calcio in generale). James Nalton riassume efficacemente il tema in un articolo su This is Anfield. La questione è più sentita a Liverpool rispetto al resto del mondo, per ovvi motivi. Nonostante questo, il Liverpool è oggi un brand mondiale, che attrae tifosi da ogni parte del pianeta, i quali spesso non conoscono o non sono interessati a questa dimensione extrasportiva del club. Non possiamo dire con sicurezza che un tifoso che non è mai stato a Liverpool percepisca o sposi necessariamente questa parte dell’identità del club. Il suo legame con lo stesso sarà minore rispetto a un tifoso nato nei sobborghi, che vive e partecipa pienamente alla città e alla società. E non solo per il legame con l’identità extracalcistica, ma anche per quello, più semplice e ovvio, con le vie di Liverpool, con i suoi abitanti, il porto, Anfield… Mi sembra che, tendenzialmente, più un club cresce e diventa un brand che si espande in tutto il mondo, più la sua identità è messa a rischio, sia per l’afflusso di tifosi che non conoscono la dimensione extracalcistica del club sia perché la società calcistica è sempre più inserita in circoli di economia, marketing e quant’altro, che la mettono a dura prova, di fronte a contraddizioni difficilmente risolvibili. Così, anche quando si cerca di dare un’idea dell’ambiente di una determinata squadra, lo si fa tramite lo slogan e l’operazione di marketing. Lo stesso Nalton cita le parole di un dirigente del Liverpool, Peter Moore:

“Dire che il Liverpool è unico non significa molto. Da esperto di marketing, ho voluto svelare che cosa significasse esattamente. […] Avevamo questa grande figura storica, Bill Shankly, un socialista scozzese.[…] Era un vero socialista, che credeva che il calcio fosse fatto di lavoro collettivo. […] All’ufficio di marketing, ci siamo incontrati e ci siamo detti: ‘Rendiamo a parole questa cosa.’ Abbiamo concluso che l’idea essenziale del Liverpool era che (il club) significava di più. Più della vittoria o della sconfitta. Più dell’andare a una partita, più di una birra al pub e dell’andarsene poi a casa.”

Così è nato lo slogan “This means more”, che per la verità non aggiunge molto di più al dire che “il Liverpool è unico”. Anzi, è uno slogan molto simile a diversi altri slogan di diverse altre società, come il “Més que un club” del Barcellona. Nalton nota pure che il fatto che tutta questa ricerca abbia portato alla produzione di uno slogan (di marketing) mette in discussione qualsiasi velleità di socialismo e mostra le difficoltà e le contraddizioni insite nel voler mantenere un’identità socialista in un mondo, come quello del calcio, che sembra rappresentare un ottimo modello antisocialista.

PERIFERIA D’EUROPA: IDENTITÀ FORTI

Alla periferia dell’Europa calcistica si possono trovare tante società che non sono ancora state investite dal ciclone dell’economia calcistica e del marketing, o ne sono state toccate solo parzialmente. Queste non attraggono tifosi da tutto il mondo e, anzi, tendono a restringere il proprio pubblico anche all’interno dei Paesi nei quali si sviluppano. In Macedonia del Nord, il calcio e l’appartenenza etnica si mescolano fino a non permettere confini definiti. Così, nella capitale Skopje, tifare Vardar o Shkupi definisce anche l’appartenenza nazionale del tifoso. Il Vardar è la storica squadra della popolazione slavo-macedone della città, mentre lo Shkupi (“Skopje” in lingua albanese) è il club della comunità, appunto, albanese. In maniera simile a Glasgow, la rivalità è rinfocolata dalle questioni nazionali, visto che anche una buona parte della politica interna del Paese si gioca sul conflitto riguardante i diritti, contesi e discussi fra la maggioranza slavo-macedone e le minoranze, fra cui spicca quella albanese.

Ad Atene, invece, nel quartiere operaio di Peristeri, molto del tempo libero della popolazione gira attorno all’Atromitos. La squadra gioca nel massimo campionato greco ed è sostenuta dai tanti operai che abitano nella zona. Tanti sono anche gli immigrati giunti nel quartiere e tutto questo si riverbera sugli spalti dello Stadio Peristeri, dove l’ambiente è schierato nettamente a sinistra e rispecchia una comunità di quartiere con caratteristiche proprie, visto che i suoi abitanti e tifosi condividono molto spesso l’occupazione con cui si guadagnano da vivere, le idee politiche, le vie e i luoghi in cui passano la loro vita, oltre a una generale apertura nei confronti del diverso, che ha portato tanti immigrati a identificarsi con la maglia blu dell’Atromitos. Il contesto di questo club può ricordare quello del St. Pauli, anche se, nel complesso, esso risulta meno radicale e più circoscritto, sia per il numero di tifosi sia per la sua minore, se non nulla, diffusione fuori da Peristeri, il che lo rende ai miei occhi più autentico e interessante.

Si potrebbero fare molti altri esempi ma ciò che mi pare più importante in tutto questo è il fatto che determinate squadre abbiano un’identità molto forte, che non si limita alla dimensione calcistica e che sarebbe ingiusto vedere solo dal punto di vista del gioco, come forse preferirebbero le associazioni di calcio internazionali o, per esempio, “l’ufficio marketing” della Premier League. La realtà è che il Liverpool non è solo Anfield, il calcio di Klopp e i gol di Salah, ma è anche il porto, la gente della città, il suo passato di roccaforte laburista, la rivoluzione industriale e la sua tradizione socialista, riassunta, anche qui, in uno slogan, non volto, però, al marketing: “Better to break the law than break the poor”. E mi pare che Jürgen Klopp abbia compreso e anche esternato più volte tutto questo.

Il calcio permette anche di vedere degli spaccati di società e di persone lontane da noi, di ampliare la nostra conoscenza del mondo, osservando come le stesse società calcistiche e i loro contesti cambino in base ai rivolgimenti della storia e alle variazioni della società umana.

 

(L’immagine di copertina è stata realizzata da Phil Kiel e rappresenta una nave in riparazione ad Albert Dock, nel porto di Liverpool.)

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