Il giudizio universale del calcio italiano: un triste declino
Non sono tempi di esaltazione per il calcio italiano, che guarda un derby consumarsi a Milano tra due squadre spagnole a contendersi la Champions. E l’unico a fare notizia è un pirla matricolato, quel Galasso che s’imbuca alla cerimonia di premiazione ed alza il trofeo al cielo insieme ai giocatori delle merengues.
Purtroppo, i dati del report di PWC sono impietosi nel dipingere un paesaggio che non è il cielo di lapislazzuli della Cappella Sistina quanto, piuttosto, una Tempesta del Giorgione.
C’è un’inerte malinconia in questo giudizio, che vede il nostro calcio impantanato in una situazione da cui è difficile emergere
Il valore della produzione del calcio italiano è immobile come Ciro, fermo sui 2,6 miliardi di euro, con addirittura una flessione del 4 % nell’ultimo anno.
C’è la crisi, signora mia, cosa vuole che sia?
Il fatto è che in Europa il business del pallone tira parecchio, con un incremento del 6,4% dello stesso dato e nello stesso periodo, considerando i principali campionati.
Da cosa deriva questa palude?
Guardando la struttura dei ricavi delle società calcistiche, si vede abbastanza chiaramente come il calcio italiano soffra ancora di una cronica malattia della quale, tra l’altro, si parla da anni.
I proventi delle società, infatti, dipendono principalmente dai diritti televisivi, la voce tutto sommato meno controllabile di un bilancio.
Il confronto con gli altri campionati europei evidenzia come nel campionato italiano i ricavi da diritti tv siano in percentuale molto più importanti e, differentemente dall’Inghilterra, senza che le sponsorizzazioni intervengano a migliorare la situazione.
Una voce, infatti, altrettanto pesante negli incassi delle società di calcio, è quella delle plusvalenze legate alla vendita dei giocatori: ancora oggi, rappresentano circa il 15% del totale.
La flessione nel valore della produzione registrata nell’ultimo anno è dovuta a un loro grosso calo, intervenuto senza che i ricavi da stadio o da sponsors siano aumentati in modo sufficiente a controbilanciare la variazione.
La domanda è: e quindi?
Non ci sono soluzioni semplici e lo mostra bene una società come l’Inter. Il progetto di Thohir ha bisogno della Champions come dell’acqua: il quarto posto di quest’anno, però, ha significato soltanto ingresso nell’Europa League, con un conseguente effetto netto sul bilancio (stimato) di mezzo milione di euro.
Una briciola, insomma.
L’accesso alla Champions, invece, produce un miglioramento netto di quasi 5 milioni di €.
Chiaro che, in condizioni simili, nonostante Mancini abbia già scritto la sua lista dei desideri, l’unica possibilità è quella di vendere giocatori, proprio per ottenere plusvalenze e sperare come sempre nell’anno venturo.
Viene in mente La nuova geografia del lavoro, di Enrico Moretti, che contrappone l’ecosistema digitale della Silicon Valley, con un modello centripeto in grado di attrarre i maggiori investimenti e i migliori talenti, a una manifattura vecchia, industria morente che perde i suoi pezzi pregiati e tira a galleggiare.
Ecco, per il calcio italiano è un po’ così: la distanza con gli altri campionati aumenta e, ad eccezione di squadre come Napoli e Juventus che hanno cambiato strategia da tempo, siamo di fronte a una spirale difficilmente reversibile, bisognosa disperatamente di quei risultati che, a catena, chiamano ricavi, sponsorship e buoni giocatori. Nel cielo di lapislazzuli di Michelangelo c’è insomma un vortice di anime elette che punta all’empireo del cholismo e una masnada di dannati, invece, per cui l’unico destino sembra un inferno senza speranza.
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