Brexit: ci avrei scommesso. Ma anche no. Tutta la verità in caso di uscita
Secondo dati freschissimi proposti da Usa Today il 71% delle scommesse rilevate dai bookmaker sono per la Brexit, ma il 76% dell’ammontare dei soldi puntati è per la non Brexit. Una curiosa dinamica che merita di essere analizzata. Mi ricorda un po’, come approccio psicologico, quel signore che ad inizio anno scommise (correttamente) solo 50 sterline sulla vittoria del Leicester poiché ipotesi molto remota seppur non impossibile; una strategia vincente, col senno di poi, se si pensa che questo fortunato scommettitore ha vinto la bellezza di 72.000 sterline. Ma se avesse avuto subito 72.000 sterline in mano da giocare non avrebbe certo puntato tutto sulla vittoria (data come improbabile) ma avrebbe (è un paradosso il mio) puntato semmai 71.950 sterline sulla più rasserenante ipotesi di permanenza in Premier League del Leicester e 50 sulla vittoria. Non v’è chi non veda come, con questa “doppia” scommessa (un po’ manichea nella mia ricostruzione per motivi di semplicità), il nostro sarebbe uscito comunque vincitore. Nella peggiore delle ipotesi non ci avrebbe perso nemmeno un centesimo.
Sono stato e me ne scuso, volutamente “arzigogolato” per sottolineare il fatto che pensare di capire le intenzioni di voto degli inglesi sulla base delle scommesse è tanto velleitario quanto affidarsi ai sondaggi. Troppe sono le variabili in campo. Per cui meglio cercare di capire quali sono gli effetti possibili derivanti da una decisione o dall’altra, sperando che gli Inglesi si facciano le idee ben chiare. E poi ognuno farà le proprie valutazioni.
Iniziamo col dire che è impossibile sapere in modo certo quali saranno le conseguenze di una Brexit perché si tratta di evento mai accaduto prima, di conseguenza si possono solo fare delle ipotesi. E diffiderei dai chi ha in tasca risposte certe.
Iniziamo. Il Regno Unito vede nell’Europa il suo principale partner commerciale verso la quale si dirigono il 45% delle esportazioni di beni e servizi prodotti in Uk, pari al 12% del Pil. Dobbiamo sempre ricordare che il contesto nel quale UK e Europa si relazionano è quello regolato da tutta una serie di accordi che disciplinano, sperabilmente facilitandoli, gli scambi di beni, servizi e (non dimentichiamolo) persone. Il mercato unico europeo è quindi ben più che una semplice area di libero scambio.
La Brexit comporterebbe ovviamente la cessazione di questi accordi e obbligherebbe la Gran Bretagna o a rinegoziare nuovi accordi (che avranno tempi lunghi e saranno meno vantaggiosi di oggi come qualcuno ha già avvertito, se non altro perché l’Europa vorrà mandare un messaggio molto chiaro ad altri Paesi potenzialmente euroscettici) oppure a entrare nell’alveo delle regole commerciali più ampie (e meno profilate si potrebbe dire) previste dal WTO. Ma questo comunque non esimerebbe l’Uk dal mettersi intorno ad un tavolo per ragionare di nuovi accordi, quanto meno bilaterali, con le realtà più sensibili e rilevanti per l’economia d’oltremanica.
C’è un’altra opzione, ossia quella di rientrare nell’Efta, scelta che però comporterebbe la perdita dell’accesso al mercato dei servizi europei (un danno enorme per le casse britanniche che vede il Pil da servizi pesare sulla ricchezza totale prodotta pesare in modo più rilevante rispetto a tutti gli altri partner europei). Senza dimenticare che oggi all’Efta aderiscono Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera. Non esattamente partner strategici per Cameron e compagni.
Ma Uk è soprattutto finanza, è Londra, è London Stock Exchange. Attività intorno alla quale ruota una fetta consistente della ricchezza prodotta ogni anno. La perdita del cosiddetto passaporto europeo da parte della City di Londra potrebbe determinare il rischio di un ridimensionamento del ruolo di piazza finanziaria globale. Pensiamo al business legato alle operazioni di post trading oggi appannaggio britannico che tornerebbero giocoforza in capo ad un Paese europeo. A questo si aggiunga il rischio di un probabile deflusso di capitali da parte di investitori esteri.
Insomma, l’uscita comporterebbe, volenti o nolenti, l’erezione di barriere più o meno alte e qualunque automobilista sa che ad ogni barriera corrisponde un pedaggio. E più lontano ci si vuole spingere più si paga.
Per questo alcune autorevoli istituzioni (Ocse, London School of Economics, Tesoro Uk etc) propongono stime che vedrebbero il Pil Uk scendere da un minimo del 2% ad un massimo del 7% nell’arco dei prossimi 15 anni. Stime, del vero, piuttosto azzardate considerato l’ampio arco temporale sul quale vengono estese. Tre lustri nei quali potrebbe accadere di tutto vista la rapidità con cui il mondo sta cambiando.
Così come non mancano autorevoli economisti che sostengono invece come l’Uk avrebbe solo da guadagnare dalla Brexit. Lo fanno sostenendo che le autorità non starebbero a perdere tempo a rinegoziare accordi commerciali. Anzi, la Gran Bretagna a loro giudizio si avvarrebbe subito delle regole comuni del WTO, procederebbe all’abbattimento dei dazi doganali erga omnes, comprerebbe beni e servizi sui mercati mondiali direttamente, a prezzi vantaggiosi. Tutto questo contribuirebbe a indebolire la sterlina, rendendo i prodotti di Sua Maestà più competitivi sui mercati globali. Senza dimenticare, dicono gli economisti pro Brexit, che tutto quanto risparmiato dalle casse Uk in termini di impegno economico richiesto dallo stare nell’EuroClub, potrebbe essere utilizzato per sostenere ulteriormente l’economia reale.
Questo è un tema centrale nel dibattito perché in passato non sono mancati cosiddetti esperti che hanno minimizzato l’effetto svalutativo dell’uscita dall’Europa, anche con riferimento all’Italia. Che la moneta del Paese uscente si svaluti è abbastanza intuitivo, almeno nel primo periodo. E se lo dicono anche accesi economisti pro Brexit c’è da credervi. Ed è molto curioso che ciò sia considerata come una dinamica naturale anche in un Paese che ha sempre mantenuto la sua sovranità monetaria. Certamente possiamo dire con un buon grado di realtà che la moneta si è già svalutata. Se diamo uno sguardo al cross Sterlina-Euro si vede come dopo il massimo di periodo toccato dalla sterlina l’11 novembre del 2015 a 1,4260 (nelle imminenze della famosa lettera di Cameron a Tusk) la divisa britannica ha perso in modo molto veloce terreno portandosi in pochi mesi a 1,26 e non sappiamo se la discesa sia destinata a continuare o meno.
Poniamo in evidenza il cross tra le due valute perché, se ben elaborato, può essere utilizzato per una valutazione di probabilità implicita di Brexit, che a questi livelli porta al 30% la possibilità, scontata dai mercati, di uscita. Aggiungiamo, a titolo di ulteriore spunto, l’impennata di oltre il 50% nelle ultime settimane dei Cds sui titoli di Stato britannici, ulteriore elemento di nervosismo.
Anche in questo caso è difficile fare previsioni ma confrontando i grafici di Csd, spread Bund-Gilt, cambi e così via è verosimile ipotizzare che nel medio lungo periodo ci sarà un rialzo dei tassi dei Gilt dovuto ad un riprezzamento dei titoli, verso il basso, giustificato da una rivalutazione del rischio paese. Dall’altra e in controtendenza, tenendo conto di aspettative di svalutazione della divisa britannica e di una possibile accelerazione dell’inflazione, potremmo assistere a politiche monetarie restrittive da parte della BoE, in antitesi rispetto a quelle espansive della Bce. Ma come detto sono solo ipotesi. Certo il quadro sarà molto confuso e di difficile lettura.
Ultima considerazione va posta sul mondo del credito, ossia le obbligazioni societarie. Qui la situazione è molto più tesa. La probabilità estraibile dai grafici dei Cds di una uscita sale al 40%, perché le grandi corporate (comprese quelle nel settore finanziario) sono decisamente le più esposte e sensibili ad un addio al mercato comune, proprio per i radicali cambiamenti normativi e bilaterali di cui potrebbero subire conseguenze dirette. Senza dimenticare che, uscite dall’Europa, le aziende britanniche non potranno più beneficiare del bazooka di Draghi che da questo mese ha iniziato a comprare anche corporate bond.
Insomma, difficile dire cosa succederà. Ma è sicuro che qualcosa succederà. Non ci resta che augurare a tutti gli attori di questo referendum, in perfetto stile british: God save the Queen.
2 Commenti
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Citazione: “Senza dimenticare che, uscite dall’Europa, le aziende britanniche non potranno più beneficiare del bazooka di Draghi che da questo mese ha iniziato a comprare anche corporate bond”.
«La Bce inizia ad acquistare corporate bond. Come funziona il nuovo Qe» –di Andrea Franceschi – 8 giugno 2016 – Il titolo deve essere quotato in euro e l’emittente deve essere una società non finanziaria con sede legale nell’area euro. Questo significa che possono essere acquistati anche i titoli di società non europee purché emessi tramite una controllata con sede nel Vecchio Continente. http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-06-08/oggi-bce-inizia-ad-acquistare-bond-societari-tutte-domande-e-tutte-risposte-nuovo-qe-102846.shtml