Froome, come vincere con uno 0-0

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21 Luglio 2017

“Bardet proverà da lontano quindi ai meno due Km”, scriveva ieri prima della tappa conclusa in cima all’Izoard un utente di un forum frequentassismo dagli appassionati di ciclismo. É un’ottima sintesi del tema tattico di questo Tour, dove Fabio Aru secondo i commentatori sarebbe andato incontro nelle tappe alpine a un duro ridimensionamento, quando invece sul Galibier ha perso una manciata di secondi e ieri ha contenuto comunque il distacco dalla maglia gialla in un minuto.

Il problema è che all’interno di quello che non è un livellamento dei valori ma delle prestazioni (i valori sono evidenti, ma la corsa non li fa esplodere, lasciandoli in potenza) un minuto appare tantissimo, quando in realtà nell’economia di una tappa di montagna la storia del ciclismo ci dice che non è nulla. E, sia chiaro, è nulla davvero. Per la prima volta negli ultimi sessant’anni tre atleti si giocheranno il Tour nella cronometro di sabato, con Froome che precede Bardet di 23 secondi e Uran di 29.

L’anno scorso il keniano nella classifica finale staccò il francese, secondo nella generale, di 4 minuti. Nel 2015 aveva lasciato Quintana a 1.12, ma il terzo, Valverde, era a più di cinque minuti. Nel 2013, dopo aver scioccato con le frullate a 600 Watt sul Mont Ventoux ed essere andato in crisi di fame sull’Alpe d’Huez (lo salvò un tubetto passatogli da Porte, che lo traghettò in cima alla salita), aveva comunque lasciato Quintana a 4,20. Dunque per qualche motivo che non ci è chiaro sino in fondo, il Froome versione 2017 non è riuscito ad aver la meglio dei rivali, e se alla fine vincerà questo Tour dovrà ringraziare il cronoprologo, allorché, anche grazie alle maglie adottate dal Team Sky, ha guadagnato 25 secondi a Bardet e 49 a Uran. Senza quei 14 chilometri sotto la pioggia, dovrebbe inseguire i due avversari (con il colombiano che a cronometro, a fronte del risultato di Düsseldorf, ha fama di essere tutt’altro che fermo. E, attenzione, 30 secondi sono una differenza che si può perdere in qualsiasi momento, nella tappa “di trasferimento” di oggi come in un punto qualsiasi della prova contro il tempo di Marsiglia, o persino nella kermesse finale dei Campi Elisi, che negli ultimi anni è stata corsa come se fosse stata “neutralizzata” sino al circuito finale, ma che può anche essere gara vera.

Questo per dire che il pronostico è sì dalla parte del keniano, ma il risultato è molto meno blindato di quel che possa sembrare, non già per le forze in campo, ma per la combinazione imprevedibile degli eventi che fanno di una gara di ciclismo una materia resistente alle logiche di una scienza esatta. Dunque perché Froome non ha provato a vincere sino in fondo? Una risposta possibile è: non ha avuto il terreno per farlo. Vero, la riduzione dei chilometri a cronometro e l’impegno relativo delle tappe in montagna hanno consentito alla classifica di rimanere “corta”. Una seconda è: non ne aveva, o meglio, non più che i migliori dei suoi avversari. In effetti ancora poche settimane prima del Tour appariva in ritardo di condizione, e di certo in salita è sembrato, a fronte dell’affondo (presto rintuzzato da Uran) nel finale dell’Izoard, molto vicino a quanto fatto vedere da Bardet e Aru. Una terza, più maliziosa e tendenziosa, potrebbe essere: non poteva, perché il Team Sky è un osservato speciale, e può correre e vincere le corse a tappe a patto però che i suoi corridori si limitino al compito istituzionale.

Val la pena allora di tornare su quello che è stato il tema inedito di questo Tour, o meglio dell’esasperazione di una maniera di correre che era già emersa negli ultimi anni, ma che nell’edizione 2017 della Grande Boucle è diventata una prassi consolidata. Nella tappa di ieri sono andati in fuga dalla partenza più di 50 corridori. “Mai vista una cosa del genere, se non tra i dilettanti”, ha commentato Greg Lemond. Ma 20/30 ciclisti sono usciti dal gruppo nei primi chilometri in ogni frazione, creando una situazione di corsa all’interno della quale convivono di fatto almeno due gare. Quella di chi concorre per la vittoria di tappa e quella riservata agli uomini di classifica e alle loro squadre. Ciascuna delle quali, per le ragioni e variazioni tattiche più differenti, può decidere di tenere alcuni corridori a difesa del capitano e di mandarne altri all’attacco. Sky fa in questo senso eccezione: non ha mai mandato corridori all’attacco, limitandosi a fare il treno in testa alla corsa in salita (e lasciando alle formazioni dei velocisti questo compito in pianura). Novità nella novità, questo ruolo di passista che percorre un tratto al massimo sforzo trainando il gruppo e poi, una volta esaurito il suo compito, si lascia staccare, ha raggiunto in questo Tour una nuova “frontiera” con alcuni dei luogotenenti di Froome, in primis il polacco Michal Kwiatkowski, già campione iridato nel 2014 a Ponferrada e vincitore quest’anno della Milano-Sanremo, che in più tappe si è di fatto fermato in vera e propria surplace a lato della strada, per poi riprendere dopo qualche minuto a pedalare, dopo aver abbassato pulsazioni, essersi alimentato, idratato e decongestionato.

Tutto regolare, sia ben inteso, ma è chiaro che una cosa è una corsa in cui ci sono trenta-quaranta corridori che provano a non staccarsi, con i gregari che lavorano soprattutto in appoggio e a supporto del capitano, e un’altra è una di 20 corridori massimo, in cui 5/6 stanno facendo una cronosquadre e gli altri tentano di rimanere attaccati sin che possono. A introdurre questa maniera di correre il Tour fu la U.S. Postal di Lance Armstrong, che faceva uso sistematico di prodotti dopanti in grado di elevare le prestazioni di tutti i componenti.

I corridori della U.S. Postal scortano la maglia gialla di Lance Armstrong

Sky, nell’epoca del passaporto biologico e del ciclismo iper-controllato, adotta una strategia diversa: ingaggia atleti che nelle altre squadre sarebbero capitani (oltre a Kwiatkowski anche e soprattutto Landa, Thomas, Nieve e Henao, a cui si aggiunge il cronoman Kyrienka) e li spreme come limoni in testa al plotone, l’uno dopo l’altro. Sino a quando una formazione concorrente non sarà in grado di scompaginare questo tema, il capitano di turno della formazione britannica dovrà limitarsi a guardare il computerino montato sul manubrio, controllando l’evoluzione della propria performance, e stando ben attento a non superare la soglia di sforzo oltre cui si finisce “fuori giri”. Agli altri, come ieri a Bardet, sarà di fatto possibile attaccare solo quando il numero dei corridori in appoggio al leader si è esaurito, e questi sia costretto a intervenire in prima persona.

Questo toglie qualcosa al valore di Froome? Assolutamente no. La sua qualità rimane, perché in caso contrario nei finali di tappa cumulerebbe quei trenta secondi di ritardo che, come nel caso del nostro Aru, bastano per restare tagliati fuori dal podio. La sua sarà comunque la vittoria di una squadra che fa pochissimi goal. “Primo non prenderle”. E di fatto il keniano in quest’edizione del Tour non ha vinto nemmeno una tappa. Nel 2013, quando tutti lo additarono, senza prove, come “dopato”, ne vinse tre. Ma è almeno dall’anno scorso che Chris ha compreso come la migliore operazione d’immagine che potesse fare è non attaccare in salita. L’anno scorso se ne è andato in discesa, quest’anno ha costruito la vittoria sul passo e contro il tempo. Il suo, di tempo, forse si sta esaurendo. Esattamente come da luogotenente di Bradley Wiggins era parso palese che fosse lui il più forte nel Tour vinto dal baronetto, ora Landa (così come Porte a tratti negli scorsi anni) sembrano pedalare persino più leggeri di lui. C’è chi dice che, stanco delle polemiche e dei sospetti che circondano la Sky, stia trattando con la Bmc. Intanto dovrà correre queste tre tappe conclusive con grande circospezione. Quella che anche quest’anno è mancata ai suoi avversati, incappati in un cronoprologo mediocre, e per questo costretti a inseguire sin dal primo chilometro. É andato tutto bene anche stavolta, Chris. Senza l’aiuto della buona sorte d’altronde non c’è 0-0 che regga sino al novantesimo.

Resta da dire che la tappa dell’Izoard è stata vinto da Warren Barguil. Che è uno dei corridori che uscendo da subito di classifica ha potuto godere di maggiore libertà in assoluto, e ha colto al meglio quest’opportunità, vincendo due tappe e conquistando la maglia a pois. Per inciso, essere sempre in fuga lo ha aiutato a risalere la classifica, sino all’attuale ottavo posto.

Resta allora una domanda: meglio un Tour agganciato a ruota, come quello che hanno fatto coloro che figurano dietro a Froome in classifica, o uno a caccia di vittorie? Di chi ci si ricorderà più a lungo, di Bardet o Barguil?

TAG: Chris Froom, Fabio Aru, Romain Bardet, Warren Barguil
CAT: ciclismo

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