Ecco perché “Girls” non mi mancherà
Il romanzo di formazione di questi anni dieci è stato scritto a puntate, ma senza salon letterario dei Gautier e Flaubert, bensì più prosaicamente su HBO. Eppure non è meno accurato l’ingrandimento sul presente, con una lente dalle sinuosità femminili: protagonista Hannah Horvath, alter ego di Lena Dunham, quasi-enfant prodige che ha scritto, diretto e interpretato Girls. Sei stagioni di giovanili ragioni e sentimenti, che dal solipsistico narcisismo iniziale, di cui sempre sono intrisi gli amori e le ambizioni a vent’anni, conducono a quel conclusivo senso di inadeguatezza tipico di ogni maturità che si rispetti.
Tutto si è chiuso prima che la grammatica della serie diventasse inadatta per altri turbamenti: quelli dell’età adulta, dei borghesi piccoli o non piccoli, dal fascino più o meno discreto che sfuma in nevrosi da chaise longue alla Woody Allen. Sono passaggi forse non ancora decifrati dal contesto millennials cui mi ascrivo anch’io.
Questo per dire che Girls non mi mancherà affatto, ma non perché mi abbia deluso. Vale esattamente il contrario. Quanto doveva essere detto è stato detto con tale completezza che si fa fatica a immaginare anfratti emotivi non illuminati dalla quasi-esistenza di questi personaggi, a costo di appellarsi al miracolo. Come spingendoci a voltare pagina, l’ultima serie porta all’esaurimento di un repertorio degli affetti del nostro evo generazionale, lasciandoci in bilico, ma ben attrezzati, su altre forme di espressione, altri linguaggi da riguadagnare in chiusura di questo percorso.
Non a caso il vero finale di Girls, quello convenzionale, non sta nell’ultimo episodio, ma nel penultimo. Qui ci sono il commiato, il pianto liberatorio con temporanee risoluzioni dei rapporti, quella densità di futuro di qualsiasi serata un po’ solenne tra tardo ventenni che si conoscono da tempo. Ogni buona serie sarebbe finita lì, forzando magari la mano, tentando chiuse su ciascun personaggio, come se a ogni nodo servisse il suo pettine.
Ma Girls è qualcosa di più di una buona serie, «Girls is the stuff of the movies, not of television» scriveva già nel 2013 Richard Brody. E la conferma definitiva è arrivata insieme con l’ultima puntata: mezz’ora di dissolvenza in atmosfera da Speriamo che sia femmina, con una strofa di Tracy Chapman mal canticchiata da Lena Dunham sui titoli di coda. Niente effetti lacrimevoli, solo una lucida capacità di espressione che stavolta è in sordina e, stemperandosi, farfuglia qualcosa di nuovo al cospetto di una vita che è cambiata.
Questo è stato Girls. Con precisione chirurgica Lena Dunham, prodotta e consigliata da Judd Apatow, ha costruito una serie che solo per finta partiva dai cliché sentimentali post-Dawson Creek con sessualità più esplicita alla Sex and the city. E invece, stagione dopo stagione, ci si sbigottiva davanti all’abilità con cui ogni prevedibilità veniva brillantemente evitata. Ogni volta che un personaggio si avvicinava a uno stereotipo o a un canovaccio, fosse anche con declinazioni ipertrasgressive narco-erotico-psichiatriche, subito i tratti si rimescolavano con un’autentica ambiguità.
Uno spazio esiguo dalla sintesi mai funzionale: sono questi soltanto – ma non è poco – gli elementi con cui la scrittura di Girls è riuscita a evitare formule, schemi a cui di solito si affeziona il pubblico televisivo rispetto al cinema. Da Friends a How I met your mother, per anni le sitcom hanno vissuto indisturbate procedendo col pilota automatico: perché proprio la replicabilità, abilmente camuffata, era l’ingrediente segreto di show che dovevano cambiare restando sempre gli stessi. Permanente impermanenza di puntate che sapevano nascondere le solite tracce, magari con lievi deviazioni dalla pista principale, sempre da riguadagnare a un passo dal finale.
Così l’assuefazione diventava rassicurante, portando a inevitabili manicheismi, a personaggi indubbiamente buoni, in cui bisognava identificarsi, e indubbiamente cattivi, simpaticamente macchiettistici – e tendenzialmente gay-friendly. Da una parte i Dawson, i Ted e le Carrie, dall’altra le Julie Cooper, le Karen e i Barney. Poi tanto i “volemose bene” finali sapevano risolvere i conflitti con consolatori appiattimenti.
In Girls, al contrario, manca del tutto il problema dell’identificazione, come ha ben scritto William J. Simmons. Girls è piuttosto un’enciclopedia dissacrante di idiosincrasie, stati d’animo, paure e aggressività che non dovremo mai più temere di sorprenderci dentro. Girls appare, visto dalla sommità della sua fine, come un’immensa raccolta di considerazioni inattuali, capaci a colpi d’ascia di smascherare tutte le piccole convenzionalità microborghesi che ci assillano fin dall’adolescenza, camuffate nel nostro presente social sotto altre forme. Dagli hipster bar in cui darsi un tono, ai vuoti articoli scritti “tipo New Yorker”, alle ipocrisie di quelle pose faticosissime ma irrinunciabili, Lena Dunham sembra esortarci a un nuovo tipo di sospensione del giudizio, disincantato certo, ma senza la retorica dell’anticonformismo a tutti i costi.
Per questo Hannah Horvath non è un modello, e di certo non è un’amica. Hannah è uno stimolo ad andare oltre i perbenismi, i moralismi e tutti gli altri “ismi” possibili in cerca della nostra irrinunciabile, adorabile inettitudine. Hannah è l’ultima occasione per un quasi trentenne di risvegliarsi dalla comune, ottusa sicurezza di essere speciale. Perché le categorie secondo cui questa fantasmatica unicità varrebbe, a ben vedere, non hanno alcun valore.
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