Looking, quando l’amore è d’obbligo

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3 Agosto 2016

Sex and the City ma in piena West Coast, un Girls da gay district, il Queer as folk di epoca tardo hipster: ecco cosa è stato Looking. Diciotto puntate made HBO, sospese con sguardo discreto su vite arcobaleno fra i ventotto e i quaranta, confuse e intrecciate con continue pause spleen, indecisioni da prendere e momenti di transizione vissuti finalmente con leggerezza.

Tutto con l’intimismo british di Andrew Haigh, regista delle più commoventi indagini queer viste di recente al cinema – fondamentale Weekend -, stavolta alle prese con l’approfondimento della serialità, con l’attesa dell’episodio e lo streaming che smette di andare proprio prima del bacio decisivo.

Poi hanno detto basta: troppo di nicchia, serie sospesa, con conseguente rivolta della comunità gay fino alla promessa di un film TV. Non per il marketing stile Sex and the City: The Movie, ma più per un apprezzabile fair play dei produttori, per dare degna conclusione agli amori dei personaggi, congelati in fermo immagine nella testa dei fan che si chiedono come sono andate le cose – l’addiction del “E poi?” da serie TV. Così è apparso adesso Looking: The Movie, presentato il primo agosto in anteprima italiana al Teatro Franco Parenti con tuffo in piscina pre film, per i meno sportivi stasera su Sky Atlantic.

Looking: The Movie – Trailer

Di nuovo le insicurezze su schermo dei tre maschi bianchi gay protagonisti della serie, irrisolti ma di buona volontà, con le loro piccole trasgressioni tra amici. Ovviamente il sesso, che però non è mai un’ossessione, e perfino la droga a volte può mancare. Infine, per chiudere la trinità, il rock and roll lo canta Britney Spears.

Già perfetto, il casting è ovviamente lo stesso della serie – il protagonista Jonathan Goff arriva dal musical espressionista Spring Awakening, da otto Tony Award -, ma il vero punto forte di Looking è sempre stata la sceneggiatura che non teorizza ma descrive: non ci si chiede perché la gente usa Grindr, si parte dal fatto che Grindr viene usato. In più, come tra le Girls di Lena Dunham, è raro trovare negli episodi stereotipi o manicheismi da serie sentimentale: le cose si presentano sempre con la giusta ambiguità. Più che realismo sembra una specie di impressionismo underground, dal gusto un po’ indie e con colonna sonora rigorosamente vintage, dagli Yazoo a Morrissey.

Il film invece si apre con uno sbiadito ritorno di Patrik in città e subito innervosisce il cliché della fuga in cerca di se stessi. L’occasione è festosa e omaggia i diritti acquisiti: in Italia si chiamano unioni civili, a San Francisco matrimonio. Nel turbine affettivo che segue, risbucano i due ex dal passato recente, ai vertici di un triangolo irrisolvibile, con uno stillicidio di chiarimenti e momenti topici del vero sentire. Così il cortocircuito d’amore di fine serie non viene superato ma si ripropone identico nel film, con il protagonista che si crogiola in un’eterna ripetizione di se stesso e dei suoi errori. Va bene che On ne change pas, come canta Celine Dion, ma così è troppo.

Il sospetto che viene a fine film è che la scelta di uno o dell’altro non sia rilevante. Perciò mancano le emozioni finali e nell’aria aleggia qualcosa che non ti aspetti: tutti felici a tavola, rigorosamente accoppiati, con progetti di famiglia che più tradizionale non si può. Posso osare di chiamarlo moralismo?

Il moralismo anni novanta dell’amore che ci completa, dell’amore che deve esserci a ogni costo. Sono i comandamenti mosaici incisi dai film inglesi con Hugh Grant, splendidi ma superati, e che nascondono i loro strascichi peggiori in alcune frasi del film tipo «da solo non ce la potrei mai fare».

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CAT: Cinema

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