Mal Comune
Siamo in Danimarca, nel 1975. In un impeto di fiducia verso il prossimo e verso le strutture della società collettiva, dopo aver ereditato una grande villa nelle campagne di Copenaghen, due paradigmatici esponenti di una borghesia intellettuale e fricchettona decidono di condividere la casa con un gruppo di amici e di “persone stimolanti”, allo scopo di sfuggire dalla monotonia della vita quotidiana e con l’inaspettata (?) conseguenza di perdere affetti, equilibrio psichico e credibilità sociale. È così che inizia La Comune, decimo lungometraggio del danese Thomas Vinterberg, uno degli esponenti di punta della cinematografia danese e fondatore, con Lars Von Trier, del movimento Dogma 95.
Animata da grandi utopie e opinabili teorie (“un ambiente ristretto ti rende di vedute ristrette”), Anna, affermata giornalista televisiva, trascina la figlia Freja e suo marito Erik, altrettanto affermato architetto e professore universitario, in un’esperienza di condivisione assoluta, all’interno di un contesto animato da cene sociali, grandi bevute e decisioni democraticamente prese per alzata di mano, nel corso di vivaci e conviviali assemblee. Le giornate si susseguono gaudenti e felici, i piccoli screzi della quotidiana convivenza svaniscono in breve tempo.
La famiglia di Anna ed Erik è il perno della narrazione: attorniata dagli altri componenti che popolano la casa, personalità spiccate ma piuttosto marginali che fanno da sfondo all’intera vicenda, si muove in un ambiente atipico seguendo una routine segnata in maniera piuttosto importante dall’elemento professionale di entrambi i coniugi; sono una coppia coesa ma solcata da piccole disattenzioni quotidiane che, con il passare del tempo, deflagrano in una catastrofe sentimentale. Ai margini della scena Freja (Martha Sofie Wallstrøm Hansen), figlia adolescente della coppia, guarda il tutto con discreta partecipazione. La sua presenza è apparentemente defilata, ma è in realtà sulle sue spalle che gravano i pesi maggiori. In un contesto di adulti eccessivamente presi da loro stessi e dalla situazione che quotidianamente vivono, Freja è l’unica in grado di mantenere, seppur con tutti i limiti della sua giovane età, uno sguardo lucido, critico e responsabile su quello che accade nel microcosmo in cui si trova a vivere; la presenza del piccolo Villads, bambino gravemente malato e figlio di una delle coppie che abitano la villa, e la relazione di affetto, cura e supporto che viene a instaurarsi tra i due risulta essere emblematica in questo senso. Freja vive un contesto che, paradossalmente e contro ogni razionale previsione, le nega la possibilità di continuare a essere una ragazzina e di crescere come tale.
Dal canto suo Anna cerca di razionalizzare, in nome dell’ideologia che ha stoicamente deciso di seguire, ciò che non può essere razionalizzato: nel momento in cui Erik le rivela di avere una relazione con una giovane studentessa, è proprio lei a proporgli di includere l’amante nella vita della comune. Vittima, giorno dopo giorno, di una deriva sentimentale che non vuole riconoscere né ammettere a se stessa, Anna si ritrova da sola a coltivare il proprio declino e la propria nevrosi. Il divario tra la reazione irrazionale, “umana”, e l’ideologia che Anna vorrebbe abbracciare si svela come impossibile da gestire e sostenere, mentre la coesione ostentata dai membri del collettivo si rivela essere superficiale e, per certi versi deleteria: il gruppo appare come un unico individuo che pensa all’unisono, incapace di prendere posizione, di solidarizzare autenticamente, di stringersi attorno al singolo, assorbito com’è dal suo spirito collettivo.
Sembra che Thomas Vinterberg, che già ricordiamo per la rappresentazione al vetriolo della famiglia disfunzionale di Festen e le angoscianti derive dell’animo umano descritte ne Il sospetto, abbia voluto delineare con apparente condiscendenza nostalgica un mondo in cui egli stesso è cresciuto e di cui ben conosce le reali ripercussioni (è noto, infatti, lo spunto autobiografico che è alla base della pièce teatrale prima, e della sceneggiatura poi). Il suo sguardo affettuoso su questa comunità così naif e sognatrice svanisce ben presto, soppiantato da un quadro desolante che descrive le contraddizioni tra la natura dell’uomo e l’immagine di sé che vuole dare a se stesso e alla società, attraverso gli ideali che talvolta, razionalmente, cerca di perseguire.
Portato avanti da un’esperta regia e da un ottimo cast (su tutti Ulrich Thomsen, già veterano dei set di Vinterberg, e Trine Dyrholm, Orso d’Argento a Berlino per questa interpretazione), La Comune è una storia di sconfitta personale e sociale; di una generazione che ha rischiato, che ha creduto, ma cui il mondo ha ineluttabilmente dato torto.
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