“La piccozza” di Giovanni Pascoli e “Fitzcarraldo” di Werner Herzog

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31 Marzo 2024

A vita conclusa

A vita conclusa e in parte archiviata cápita di trovare in Rete pezzi di biografia di persone che hai conosciuto o soltanto sfiorato nel corso dell’esistenza. Ne leggi i percorsi e ne ricordi le premesse. Non valuti i risultati perché, ormai a bordo campo e a fine partita, non te ne importa più nulla di come è andata a loro e come a te, anche perché credi con Moravia che “una vita vale l’altra perché in fondo son tutte sbagliate”. Ma ti interessa l’entità di quello sbaglio e le differenze negli esiti. C’era chi aveva un capitale sociale o una rete di relazioni (partiti politici, famiglie, eredità,  traffico di influenze ecc.) molto solida e chi era venuto al mondo sprovvisto di ogni mezzo. È il momento in cui riprendo La piccozza di Giovanni Pascoli.

È una poesia racchiusa nella raccolta “Odi e Inni” del 1906 ed espone l’ascesa (si suppone umana e intellettuale) di un uomo che fa affidamento soltanto sulle proprie forze. La piccozza è l’attrezzo usato dagli alpinisti per arrampicarsi, evocata dal poeta per ascendere questo allegorico monte che è la vita. Ciò che mi colpì subito di questa ode è l’energia, la solitudine, la disperazione ma anche l’orgoglio di chi fa affidamento soltanto su se stesso per giocarsi la partita dell’esistenza. Bello è, nella poesia, che quasi ogni strofa si apra con un Da me o Per me, che in maniera onomatopeica dovrebbe simulare il colpo di piccozza necessario per arrampicarsi. Chiudete gli occhi e sentite i colpi di piccozza Da me, Per me… Vi ricopio due strofe:

Da me, da solo, solo e famelico,
per l’erta mossi rompendo ai triboli
i piedi e la mano,
piangendo, sì forse, ma piano:

E salgo ancora, da me, facendomi
da me la scala, tacito, assiduo;
nel gelo che spezzo,
scavandomi il fine ed il mezzo.

Pascoli è un grande poeta, e non certo per questa ode. Chi l’ha studiato bene sa che non è il poeta del Fanciullino o di “X agosto” o di “Cavallina storna”, di “Valentino” o di “Romagna”, che pure tutti abbiamo studiato a scuola (e io le studiai sia a Firenze che in Sicilia) e che per conto loro sono componimenti di tutto rispetto, e, per quelli della mia generazione ancora fonte di commozione e di struggente ricordo per un’età della vita quando tutte le moltiplicazioni mentali sembravano possibili. Pascoli è poeta meno nitido di quello che si pensa tuttavia, è torbido e profondo, come certi abissi marini, e dal punto di vista formale non ha nulla da invidiare ai poeti simbolisti di più vasta fama.

Sì, ma perché mi piace tanto questa poesia e perché ci ritorno spesso? Perché è la poesia della mia vita, e avrei voluto scriverla io. Come lui mi sono arrampicato nella vita scavandomi il fine ed il mezzo, da solo, facendomi la scalata, “tacito e assiduo”. E alla fine di questa scalata cosa ho visto? Perché ho fatto tanta fatica? Per restare lassù in cima, per restare solo con le aquile, perché mi vengano a trovare – seguendo i riflessi nell’acciaio della piccozza che ho da me discosta -, le stelle dell’Orsa.

Salgo; e non salgo, no, per discendere,
per udir crosci di mani, simili
a ghiaia che frangano,
io, io, che sentii la valanga;

ma per restare là dov’è ottimo
restar, sul puro limpido culmine,
o uomini; in alto,
pur umile: è il monte ch’è alto;

ma per restare solo con l’aquile,
ma per morire dove me placido
immerso nell’alga
vermiglia ritrovi chi salga:

e a me lo guidi, con baglior subito,
la mia piccozza d’acciar ceruleo,
che, al suolo a me scorsa,
riflette le stelle dell’Orsa.

Se avete visto il film Fitzcarraldo sapete certamente a cosa servono le grandi fatiche sia della vita che dell’arte. C’è questo pazzo di Klaus Kinski (“folle” nella vita e nei film) che disbosca mezza Amazzonia per trascinare una nave in mezzo alla giungla, costruirvi un teatro d’opera e farvi risuonare con un grammofono al solo beneficio dei pappagalli la voce di Caruso. Questa metafora dell’arte e della vita è perfetta: non si fa che spostare lungo tutta l’esistenza grandi blocchi come le piramidi per custodirvi una mummia, ascendere montagne come nella Piccozza per stare per sempre con le aquile, sconvolgere la giungla per far sentire Caruso ai pappagalli.

TAG: Giovanni Pascoli, Werner Herzog
CAT: Cinema, Letteratura

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