Postspettatorialità e Cinema: intervista a Mario Tirino

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10 Dicembre 2020

Da qualche settimana è uscito per Meltemi Postspettatorialità. L’esperienza del cinema nell’era digitale, l’ultimo lavoro saggistico di Mario Tirino*, che affronta il tema della trasformazione dell’esperienza spettatoriale, in qualità di processo marcatamente sociale, in riferimento alla dimensione del cinema. Il testo, di stampo e meticolosità accademici, offre spunti di riflessione di fondamentale rilevanza sui quali, alla luce soprattutto dello scenario odierno, occorrerebbe soffermarsi anche all’infuori dell’ambito strettamente universitario.

Proviamo a farlo qui, grazie all’intervista che Tirino ci ha gentilmente concesso.

 

 

Vorrei partire proprio dalla tua ultima pubblicazione, Postspettatorialità. L’esperienza del cinema nell’era digitale (Meltemi 2020) e fermarmi subito sul titolo. Come sottolinea anche Gino Frezza nella prefazione all’opera «Postspettatorialità è una parola che può lasciare perplessi o sbigottiti» ma, aggiunge immediatamente, «chi inizia a leggere questo libro […] vede subito fugati i suoi dubbi». In effetti, il solidissimo impianto teorico da cui tu parti prima di addentrarti nella questione specifica del cinema lascia poco spazio a tentennamenti.

Vuoi dirci cos’era la spettatorialità prima di questo “post” e cos’è invece oggi con quel suffisso davanti?

Il concetto di spettatorialità, sebbene mai codificato in maniera pacifica, è stato lungamente dibattuto, soprattutto nel campo degli Audience Studies, della sociologia dei media e dei Film Studies.  Per spettatorialità io intendo la forma privilegiata dell’esperienza filmica nell’era classica, articolata intorno all’intreccio di fattori corporei, tecnologici, sociali e culturali. Si tratta, naturalmente, di un’astrazione teorica, il cui studio puntuale richiede un’attenzione rigorosa e metodologicamente fondata di una moltitudine di pratiche, differenziate per contesti geografici, ere storiche, contesti sociali, generi e generazioni. La profonda mediatizzazione della cultura, di cui recentemente hanno scritto Nick Couldry e Andreas Hepp, ha comportato una trasformazione profonda dei processi di produzione, distribuzione e consumo della cultura. Lo stesso concetto di “cultura partecipativa”, che tanta fortuna ha giustamente avuto nella mediologia contemporanea grazie a Henry Jenkins, è limitato nel rendere conto delle nuove configurazioni dell’esperienza spettatoriale nell’era digitale. Abbiamo proposto il framework della “postspettatorialità” per identificare un vasto insieme di teorie e pratiche che inquadrano un’esperienza mediale che non si ferma più al mero consumo e alla mera fruizione di contenuti e neppure alla loro discussione, ma si espande nelle fasi di promozione, produzione, distribuzione, programmazione e archiviazione delle opere audiovisive. Premetto che, neppure nell’era analogica, mi sembra che l’esperienza dello spettatore sia stata limitata come invece appare in molti di quegli studi che, alla spettatorialità “classica”, assegnano in varia misura quote di passività. Nel passaggio all’era digitale possiamo dunque ipotizzare una graduale, ma ferma transizione dalla spettatorialità, contrassegnata da spazi di intervento ancora limitati, alla postspettatorialità, segnata invece dall’apertura di inediti territori di attività, cooperazione, scambio, co-costruzione. Inoltre, questo ampio range di pratiche mediali in cui si sostanzia la postspettatorialità è di natura squisitamente sociale: ciò in qualche modo smentisce le apocalittiche visioni di utenti mediali rinchiusi dentro le prigioni di una relazione solipsistica con il cinema, il postcinema e le loro narrazioni.

Anche nel caso delle forme spettatoriali digitali tende a prevalere il proponimento di posizioni dicotomiche che contrappongono, al paradigma della continuità da una parte, quello della rottura dall’altra. Analizzando in dettaglio cos’è e come si articola il mediashock tu arrivi a proporre invece, in relazione alla forma culturale del cinema, un’ipotesi di soluzione mediana definibile come ‘continuità nella rottura’.

Quali sono i motivi che ti hanno portato a sostenere la necessità di questa terza via e perché, dal tuo punto di vista, rimane sempre molto forte, in riferimento agli studi mediologici, la tentazione di schierarsi tra gli apocalittici o tra gli integrati?

Ti ringrazio molto per questa domanda, perché, a mio avviso, intercetta la tensione teorica essenziale del mio lavoro. L’impostazione di fondo del volume risiede nel tentativo di individuare la forma culturale del medium cinematografico, intesa – nella tradizione dei Cultural Studies di Chaney e Williams – come il prodotto dell’incessante interazione tra attori sociali, tecnologie e processi socioculturali. Adottando uno sguardo genealogico sull’evoluzione di questa forma culturale, abbiamo avvertito la necessità di evidenziare quegli shock tecnoculturali che il medium cinematografico ha dovuto fronteggiare nel corso dei decenni: il suono, il colore, la televisione, l’home video, i formati e i dispositivi digitali. In questo senso abbiamo adottato il paradigma della continuità nella rottura, per individuare nella maniera più chiara possibile, una via teorica che desse conto di questa qualità di adattamento della forma culturale del cinema ai mediashock. Questa posizione tuttavia non è intermedia rispetto alla tesi della rottura, ancora oggi diffusamente celebrata dai cantori di una presunta “rivoluzione digitale”, e a quella della continuità, che insiste sulla transizione, più o meno indolore, delle culture audiovisive dall’era analogica a quella digitale. Si tratta invece di una posizione che sta “sopra” le altre due e in qualche modo evita le secche del dibattito in cui esse spesso si ritrovano. Ciò che abbiamo provato a evidenziare è che, proprio per la risposta evoluta offerta dal sistema in risposta ai mediashock, la forma culturale del cinema – rispetto ad altri media “aggrediti” dalla digitalizzazione – ha assorbito e rilanciato con più facilità le trasformazioni strutturali da cui è stata investita. Per rispondere alla seconda parte della tua domanda, io credo che la frequenza con cui ancora oggi il dibattito sui media si articoli – per la verità, più in ambito giornalistico e divulgativo, che negli studi accademici – nella furibonda contrapposizione tra apocalittici e integrati, penso sia una posizione di comodo. È molto più semplice assumere un posizionamento ideologico o comunque preconcetto, pro o contro le novità socioculturali attivate dai media digitali, che investire tempo, risorse e conoscenze nello studio di fenomeni e pratiche, assai più complesse di come appaiano a un primo sguardo.

Nell’epoca attuale, l’epoca dell’immagine manipolata e computerizzata per antonomasia, appare sempre più evidente come proprio l’immagine, statica o in movimento, non sia una rappresentazione della realtà ma, al contrario, una rappresentazione e non una realtà, seppure in grado di produrre comunque quello che Roland Barthes chiama “effetto realtà”: questo perché l’immagine è anche il suo immaginario, da intendersi come “fenomeno comunicativo sempre in atto”.

Rispetto alle culture filmiche tradizionali, in che modo le soggettività spettatoriali si pongono di fronte all’immaginario associato al prodotto visivo? Quando e perché bisogna iniziare a parlare invece di postimmaginario?

L’immaginario audiovisivo, in quanto parte di un più ampio immaginario collettivo – costruito attorno a miti, simboli e narrazioni condivise – è sempre stato una sostanza multiforme, eterogenea, fluida, capace di intercettare il desiderio, le emozioni, le inquietudini di vasti strati della popolazione. Oggi le soggettività (post)spettatoriali hanno una relazione – almeno potenzialmente – più intensa con i prodotti dell’immaginario audiovisivo, in quanto possono incidere sulle varie fasi di vita degli stessi. Inoltre, sempre più gli spettatori/utenti mediali intendono interagire con i creatori, veicolando contenuti “dal basso” secondo le dinamiche effervescenti e coinvolgenti delle culture grassroots. La nozione di postimmaginario, in verità, è più controversa e meritevole di altre indagini. In ogni caso, essa fa riferimento alla frammentazione e deflagrazione dell’immaginario collettivo, oggi disperso in controimmaginari, immaginari di nicchia e così via. Questa mutazione antropologica si comprende meglio se riflettiamo sul concetto di immaginario sociale, che – semplificando un universo di lavori, da Castoriadis a Taylor, passando per Schutz e Berger e Luckmann – inquadra sostanzialmente quell’insieme di definizioni condivise collettivamente, in base alle quali una società costruisce comunitariamente le definizioni del reale. Quando un immaginario sociale subisce fratture significative, sempre più il corpo sociale è percorso da controdefinizioni del reale, che negano ogni attendibilità rispetto alle definizioni elaborate dalla maggioranza: i no-vax, i negazionisti del Covid, le varie forme di complottismo possono essere collegate, in qualche modo, alla traumatica dissoluzione degli immaginari sociali dell’era moderna e postmoderna. Un fenomeno simile coinvolge l’immaginario audiovisivo: se fino agli anni Novanta del Novecento, questo poteva essere agevolmente ricondotto a un corpus di opere più o meno conosciute (il che non significa necessariamente “visionate”) da vaste comunità di appassionati, oggi esso si ristruttura in molte “bolle”, spesso vitalissime, fertili, ma anche “chiuse” in comunità omofile di cultori. Tuttavia, sarei molto cauto nell’accettare tout court una trasformazione definitiva in questo senso: più che parlare già di un’era del postimmaginario, propenderei per uno studio più rigoroso della dialettica tra un immaginario mainstream, ancora oggi molto vivo e densamente transmediale (pensiamo per esempio a quanto ruota intorno alla Disney: il Marvel Cinematic Universe, il franchise di Star Wars, i film della Pixar), e le molte culture filmiche afferenti a immaginari visivi anche “politicamente” divergenti. In questa direzione, inoltre, si inserisce anche il passaggio dal cinema al postcinema. Se il medium cinematografico, con qualche approssimazione, può essere associato a ciò che in diverse epoche storiche e in diversi contesti socioculturali viene identificato dai pubblici come “film”, il postcinema è formato da quel magma di prodotti costruiti intorno alle immagini in movimento (videoclip, videopoesie, avant-garde, cinema sperimentale, ephemeral films, pubblicità, video amatoriali e molto altro ancora), cresciuto esponenzialmente con l’accesso diffuso e generalizzato ai dispositivi  digitali di produzione audiovisiva. Ebbene, l’universo delle culture cinematiche è un’ulteriore fonte di controimmaginari che si muovono in direzioni dissonanti, critiche o, più semplicemente, differenti rispetto ai prodotti visivi dell’immaginario audiovisivo “mainstream”. Infine, la questione del postimmaginario è ulteriormente complicata dal fatto che siamo in un mediascape oggi contrassegnato dall’estrema porosità dei media, i cui confini sono erosi da intermedialità, transmedialità, crossmedialità: in altre parole, i contenuti viaggiano oggi attraverso piattaforme plurali. Con due effetti. In primo luogo si fa fatica a parlare di un immaginario audiovisivo – nella sua totalità di immaginario mainstream più una serie di controimmaginari – come una macchina mitopoietica e processuale autonoma. Nell’era postmediale profetizzata da Krauss e ben descritta da Ruggero Eugeni l’immaginario audiovisivo è piuttosto parte di un immaginario mediale, in cui le diverse forme di medialità (visiva, letteraria, sonora, ecc.) si confondono quotidianamente. In secondo luogo, l’immaginario audiovisivo è alimentato non più solo dai prodotti “ufficiali” delle industrie cinematografiche e televisive, ma anche dall’oceano di produzioni mediali e di user-generated content che si riversano quotidianamente nei server di tutto il mondo. Questi prodotti tendenzialmente sono estranei alle forme mainstream dell’immaginario audiovisivo e mediale, eppure possono spesso penetrarvi per effetto della capacità diffusive della viralità delle immagini online.

L’home entertainment, del quale ciascuno di noi ha fatto larga esperienza soprattutto negli ultimi mesi, diventa il paradigma delle nuove conoscenze e abilità richieste allo spettatore e, allo stesso tempo, dell’incidenza delle caratteristiche dei dispositivi per poter fruire dell’esperienza filmico-mediale.

Vuoi contestualizzarci questo discorso all’interno di quello più ampio della digital literacy a cui rimanda e provare a indicarci la traiettoria che l’esperienza sociale del cinema seguirà in un futuro prossimo, anche alla luce dello scenario complessivamente mutato con il quale dovremo raffrontarci?

Questa domanda mi offre l’opportunità di chiarire uno degli elementi teorici portanti del volume: la trasformazione dell’esperienza che facciamo con/attraverso il cinema nella contemporaneità. Nell’era analogica noi avevamo del cinema un’esperienza essenzialmente filmica, molto spesso codificata attraverso regimi di fruizione definiti attraverso la negoziazione tra la tecnologia disponibile e le convenzioni socioculturali: in questo senso, per anni l’esperienza del cinema è stata essenzialmente regolata dal dispositivo della sala e articolato attorno a silenzio, oscurità, ipomotilità, visione ininterrotta dall’inizio alla fine della proiezione. Con l’home video gli spettatori/utenti mediali hanno avuto accesso a una moltitudine di dispositivi, che hanno sicuramente avuto il benefico effetto di garantire l’accesso a library estese e di consentire la creazione di archivi personali e familiari. Inoltre, con le VHS, i DVD, i file digitali, le piattaforme di videostreaming l’utente mediale può selezionare, modellare, regolare l’esperienza del film: si tratta di un’autentica esperienza mediale del cinema, perché mediata da una serie di dispositivi e apparati con proprietà specifiche. Tuttavia, un utilizzo gratificante di questi media richiede una literacy, un addestramento nient’affatto scontato eppure necessario. Occorre conoscere i formati, i software, i dispositivi di cui ci serviamo (pc, tablet, smartphone, smart tv, videoproiettori, media player) e maturare abilità, competenze e saperi, da aggiornare continuamente in virtù della continua mutazione tecnologica. La digital literacy è elemento fondante per assicurare una più consapevole relazione con i media. Acquisire una compiuta alfabetizzazione mediale significa allora approfittare dell’esperienza mediale del cinema come occasione per migliorare la formazione informatica di intere generazioni di utenti, per acquisire maggiore consapevolezza delle molteplici mediazioni tecniche e culturali che “attraversiamo” quando ci sembra di “guardare” semplicemente una serie tv o un film, per estendere la familiarità con la materialità delle macchine di cui troppo spesso percepiamo solo l’aspetto di “black box” inviolabili e, ancora, per comprendere più pienamente le logiche e le politiche della produzione mediale.

Tra i tanti casi di cronaca di questo tipo, quello recente del video hard di una maestra d’asilo del torinese, passato di chat in chat e finito fino al cospetto della dirigente scolastica dell’istituto dove la giovane lavorava, ci pone ancora una volta di fronte a un episodio di revenge porn. Al di là di tutta una serie di riflessioni che accadimenti come questo ci obbligano a fare, da un punto di vista legale, morale e socio-culturale, essi diventano una delle dimostrazioni più evidenti di quell’assottigliamento del confine tra sfera pubblica e sfera privata, al quale i nuovi strumenti mediali da tempo ci hanno abituato e, contestualmente, di un modus cogitandi e operandi profondamente mutato nei confronti del visivo e del visuale.

Ci potresti dare, da esperto del digitale quale sei, un tuo parere rispetto a questi ultimi due punti e, più in generale, rispetto a questo tipo di problematica sempre più diffusa?

Il revenge porn è un fenomeno complesso che, sicuramente, si può leggere nei termini di una rottura della soglia tra sfera pubblica e sfera privata. I social media ci hanno abituato a costruire le nostre identità ibride e fluttuanti nei territori più o meno aperti del Web. Ciò si è tradotto, per molti, nella capacità di gestire in maniera intelligente aspetti pubblici e aspetti privati con una spiccata sensibilità mediale: come scriveva alcuni anni fa Giovanni Boccia Artieri, ci siamo fatti “media”, nel senso che abbiamo assorbito ed elaborato alcune logiche dei media visuali, adoperate nel presentare sui social network informazioni che riguardano la nostra vita. Tuttavia, anche rispetto a queste pratiche, tenderei ad assumere un atteggiamento molto più cauto, proprio per l’assenza di un’alfabetizzazione digitale in molti strati della popolazione occidentale. Innanzitutto, non tutti hanno la capacità di ragionare come produttori mediali, calibrando la divulgazione di aspetti privati nella scena “pubblica” sui social e in Rete attraverso una puntuale valutazione dei rischi e dei benefici che ne derivano. In secondo luogo, è altrettanto evidente che la categoria dei “nativi digitali” ha ingenerato molta confusione, diffondendo l’errata convinzione che, solo per effetto di una più diretta familiarità con gli ambienti e i media digitali, i più giovani, membri della Generazione Z e di quelle successive, siano utenti consapevoli. Niente di più falso: esistono anche qui usi molto superficiali e, in alcuni casi, anche una profonda incomprensione delle conseguenze devastanti di alcuni comportamenti. In ogni caso, al di là dei ragionamenti sull’urgenza di programmi dedicati alla media literacy in ambito scolastico e aziendale – che sarebbe bello in ogni caso riprendere in altri contesti – la quantità di materiali culturali a prevalente dimensione visiva è un pungolo per chi si occupa di sociologia della cultura a riconsiderare il ruolo delle culture visuali nella società contemporanea. Credo che le considerazioni che potremmo sviluppare siano molte e di diverso tenore. Ne evidenzio, per brevità, tre. In primo luogo, nell’alveo di quelle pratiche di produzione culturale grassroots, l’elemento iconico è ciò che elettrizza il nostro modo di “abitare” i social media. In altri termini, l’estetizzazione dell’esperienza mediale – ciò che ci consente di “godere” della nostra presenza socialmente condivisa nelle piattaforme – avviene principalmente mediante la capacità di lavorare le immagini secondo registri dati (celebrativo, mitologico, parodico, allegorico, ironico). GIF, meme, fanvideo, foto variamente modificate attraverso specifiche app, e altri contenuti iconici sono molto spesso prodotti, distribuiti e rielaborati secondo queste logiche. In secondo luogo, le culture visuali tendono a superare la soglia tra generi mediali: l’infotainment e l’edutainment ne sono un esempio. Lo storytelling visuale tende a costruire ambienti affettivi, in cui molto spesso si sollecita, prevalentemente o esclusivamente, il coinvolgimento emotivo degli utenti. Ciò avviene indipendentemente dal fatto che si vogliano realizzare prodotti finzionali o no fiction. In terzo luogo, come effetto di queste due pratiche e di molti altri fenomeni della visualità digitale, siamo sempre più abituati a pensare “visivamente”, cioè a immaginare continuamente come la comunicazione dei nostri sentimenti, delle nostre idee, delle nostre  intuizioni e dei nostri progetti possa essere rappresentata in forma iconica. Abbiamo i media e le conoscenze per imbastire un racconto visivo delle nostre vicende, intime o pubbliche, e farne l’uso più confacente ai nostri desideri: lasciarlo ai nostri cari o condividerlo con i pubblici che ci scegliamo in Rete. Infine, lo studio delle culture visuali nella società digitale dovrebbe spingere gli studiosi a interrogarsi, molto di più di quanto non si faccia oggi, su approcci transdisciplinari, superando steccati disciplinari che spesso penalizzano soprattutto gli studi.

*Mario Tirino è assegnista di ricerca al Dipartimento di Studi Politici e Sociali dell’Università degli Studi di Salerno. Si occupa di sociologia delle culture digitali, mediologia della letteratura e del fumetto, teoria dei media. Ha scritto oltre settanta saggi scientifici pubblicati in volume e su riviste accademiche, tra cui “Comunicazioni Sociali”, “Sociologia”, “Italian Journal of Sociology of Education”. Ha curato i volumi Sport e scienze sociali (2019, con Luca Bifulco), Flash Gordon. L’avventurosa meraviglia (2019), I riflessi di Black Mirror (2018, con Antonio Tramontana), Romanzi e immaginari digitali (2017, con Alfonso Amendola) e Saccheggiate il Louvre (2016, con Alfonso Amendola). Dirige, con Gino Frezza e Lorenzo Di Paola, la collana editoriale di studi su fumetti e media “L’Eternauta”. È membro del progetto di ricerca internazionale sulla media literacy “Teseo – I fili d’Arianna nell’era digitale (2019 – 2021).

 

TAG: cinema, Mario Tirino, media, Meltemi, Postspettatorialità. L’esperienza del cinema nell’era digitale
CAT: Cinema, Media

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