Che fine hanno fatto Mafia Capitale e il Pd romano commissariato da Renzi?

12 Aprile 2015

ROMA – Appalti sospetti, funzionari corrotti, avvisi di garanzia in arrivo. Segreterie in eterna fibrillazione, false notizie fatte circolare ad arte, incendi dolosi, minacce di morte. Per raccontare cosa sia divenuta Roma a quattro mesi dall’esplosione dello scandalo giudiziario di Mafia Capitale non basterebbe un romanzo giallo, ma servirebbe una saga epica piena zeppa di eroi mediocri. Una di quelle storie in cui il bene non si distingue più dal male, dove onesti e corruttori, politici e burocrati, si spintonano in maniera goffa, tutti ammassati sullo stesso carro: quello del sospetto a prescindere.  Nelle stanze del Comune, come in quelle della Regione, si guarda con speranza, ma soprattutto timore, al lavoro dalla procura di Roma. Legalità è la parola chiave, almeno per il futuro. E’ sul passato recente che nessuno può garantire nulla. Neanche ad Ostia, l’emblema più evidente della crisi della politica cittadina, che tenta di affrontare i problemi, cercando di dissimularli.

Quando il minisindaco di Ostia – cioè il presidente di Municipio – Andrea Tassone circa 20 giorni fa in una conferenza stampa rassegna polemicamente le sue dimissioni per chiedere una maggiore attenzione da parte del Campidoglio, viene descritto come un uomo coraggioso che lancia un segnale contro la mafia. Poi, però, nel giro di pochi giorni si trasforma nell’uomo con “le gambe molli”. E la discussione sul passato e sul destino del mare di Roma rimane dove è sempre stata. Esclusivamente nelle stanze del Pd. I cittadini devono accontentarsi della massima di Matteo Orfini, romanissimo commissario del Pd romano dopo l’esplosione dello scandalo di Mafia Capitale, presente anche lui alla conferenza: “A Ostia c’è la mafia. Punto”. Non è una novità per chi conosce il litorale, ma poco importa.  Perché nella città post mafia capitale dominata dai commissari tutto deve essere tenuto segreto e alla trasparenza si preferisce l’oblio. O in alternativa il sensazionalismo mediatico che trasforma i social network nel palcoscenico della contesa politica, secondo una strategia ben precisa che che nel passato recente ha già premiato Grillo o Renzi. Il primo a capirlo è stato il senatore Stefano Esposito, chiamato a mettere ordine nel partito lidense. I suoi post sulla famiglia Spada e su Alessandro Di Battista gli garantiscono una grande visibilità. Che non utilizzerà mai per spiegare l’unica cosa che dovrebbe chiarire: perché Tassone si è dimesso? Cosa è successo ad Ostia?

Nella nuova dialettica del pd romano, i “gufi” di Matteo Renzi vanno sostituiti con i “mafiosi”. Per Orfini è mafioso il Movimento 5 Stelle che vorrebbe le elezioni (“A Roma la linea dei grillini non cambia: attaccare il Pd e dimettere @ignaziomarino. Segnalo con affetto che è la stessa linea della mafia”). Allo stesso modo per il sindaco Marino è  mafioso l’esponente di Sel e vice presidente della Regione Lazio, Massimiliano Smeriglio, colpevole di aver chiesto chiarimenti all’assessore Sabella dopo una lunga intervista rilasciata a Repubblica sul g8 di Genova del 2001, in cui  l’assessore, senza fare nomi, svela l’esistenza di una sorta di golpe preventivo contro la piazza no global. Basta poco, insomma, per finire sotto la scure della triade Orfini, Marino, Esposito, che si espone contro tutto e tutti, ma riserva i giudizi più ingenerosi verso i partiti non coinvolti dall’inchiesta Mafia Capitale, lasciando presagire un modello larghe intese, sulla falsariga del governo Renzi, esportabile anche in Campidoglio.

Se c’è un obiettivo raggiunto in questa gran confusione, che mira a minimizzare le responsabilità del Pd nel sistema di malaffare scoperchiato dalla magistratura, è quello di aver fatto cadere nel dimenticatoio il monito lanciato da Barca nella sua relazione “mappailpd”, quella che descriveva il pd romano come un partito  “dannoso e cattivo”. La rottamazione normalizzata voluta da Matteo Renzi, che spera così di allontanare lo spettro delle elezioni, è già in atto.  A Ostia come nel resto della città, il messaggio da lanciare è chiaro: la colpa è della burocrazia che, come afferma anche l’assessore alla legalità Alfonso Sabella, “a Roma è più corrotta dei politici”. Anche il sindaco Marino, che ancora a novembre rischiava di essere silurato dai poteri forti del partito per aver messo in discussione (spesso involontariamente) equilibri inviolabili, ne è convinto: “Il Pd è l’unico partito che sta facendo davvero pulizia”. I corrotti? Sono, solo delle mele marce. Quali siano, però, non si sa. Perché a conti fatti gli unici volti mancanti rispetto a 4 mesi fa sono quelli dell’ex assessore Daniele Ozzimo (“un garante della legalità” come lo definì proprio il sindaco il giorno delle sue dimissioni) e del  minisindaco di Ostia Andrea Tassone (anche lui un eroe nel giorno delle dimissioni), non certo figure di primo piano nel partito romano. I famigerati “nomi e cognomi” (in merito l’ultimo tweet del profilo @MappailPd risale al 2 aprile), più volte promessi tardano ad arrivare. Poco importa per Matteo Orfini, chiamato dallo stesso premier a rottamare quel sistema di correnti che ha favorito la sua ascesa politica: “Il @pdnetwork prima parlava a nome dei più deboli, oggi li rappresenta”.

Di sicuro Orfini, proteso nei giorni scorsi a ritagliarsi un ruolo sulla vicenda De Gennaro e sulle torture di Genova, non fa riferimento ai rom o ai profughi, le cui condizioni di sfruttamento sono rimaste le stesse dopo l’esplosione di Mafia Capitale. La massima di Buzzi “con i migranti si fa più soldi della droga” continua ad essere valida e il business è ancora saldamente intatto, nonostante l’inchiesta di Pignatone.  Sia chiaro al Pd, questo è innegabile, va dato atto di aver posto almeno mediaticamente il tema delle mafie, al contrario del centrodestra, dove il fatto che l’ex sindaco Gianni Alemanno sia stato indagato per 416 bis per mafia non ha dato vita alla minima riflessione.  Però in questi quattro mesi di ostinata “legalità”, ancora non è stato aperto un dibattito politico reale sulle storture del sistema “Roma capitale”, sul fallimento delle opere pubbliche, sull’emergenza casa o sullo strapotere di determinate società costruttrici (come nel caso dei Pup). Le priorità in Campidoglio sono state altre e quasi tutte imposte dall’alto: i conti pubblici.

Certo, c’è  stato tempo anche per approvare il registro delle unioni civili, così come la pubblica utilità connessa allo stadio della Roma, votata in tutta fretta a ridosso di Natale mentre la finanza setacciava i cassetti del Campidoglio. E’ anche  cambiato il marchio turistico della città: via il termine Capitale, ormai troppo affine al concetto di Mafia, meglio il più rassicurante “Rome and You”. Nel frattempo, però, i romani ancora non hanno saputo perché l’assessore al sociale Rita Cutini, una delle poche uscite a testa alta dallo scandalo di Mafia Capitale, si sia dimessa il 14 dicembre al termine di un colloquio “sincero, onesto e anche costruttivo” con il sindaco Marino e soprattutto perché colei che l’ha succeduta, Francesca Danese, sia stata minacciata di morte a tal punto da meritare una scorta. “Non ne parliamo neanche più – ha ammesso lei stessa affrontando l’argomento – Perché abbiamo tanto da fare, abbiamo da lavorare”.

E dire che tante sarebbero le domande che meriterebbero una risposta, come insegna il passato recente del sistema “Mafia Capitale”, costruito proprio sull’assenza di trasparenza di quella zona grigia perfettamente sintetizzata dal Procuratore Pignatone nell’espressione Mondo di Mezzo. Perché tante continuano ad essere le pagine oscure di questi mesi che meriterebbero un dovuto approfondimento. Furti sospetti, come il computer trafugato dall’Ufficio Giardini pochi giorni dopo l’esplosione dello scandalo “Mondo di Mezzo”, ed eventi catalogati troppo frettolosamente nel calderone della cronaca locale e per questo già dimenticati.  Come l’incendio scoppiato nella notte del 4 gennaio nell’ufficio politico di Mirko Coratti,  ex presidente dell’assemblea capitolina, costretto alle dimissioni dopo il coinvolgimento nello scandalo di Mafia Capitale. O quello di pochi giorni fa divampato a Tor Bella Monaca nei locali del VI Municipio, dove alle indagini di Mafia Capitale si sommano altre inchieste in corso su alcune somme urgenze sospette risalenti alla precedente consiliatura.   Non è un caso che Gennaro Migliore sia stato inviato proprio qui un mese fa  a verificare la situazione del Pd locale,  dove accanto al presidente del Municipio Marco Scipioni e alla classe dirigente uscita vincente dalle primarie e dai congressi, ancora oggi contestati da una consistente fetta di elettorato, governa un pezzo di centrodestra al potere già nella passata legislatura, quello che ruotava attorno all’ex vicepresidente dell’assemblea capitolina negli anni di Alemanno,  Samuele Piccolo, mentre Sel siede all’opposizione. Allo stesso modo, nel XIV Municipio (ex XIX), dove il presidente Valerio Barletta ha coraggiosamente denunciato la presenza di 183 appalti fantasma per lavori pagati e mai eseguiti, la reazione del partito è stata piuttosto tiepida, per non dire inconsistente.

D’altronde il Giubileo alle porte non permette troppe crisi di coscienza, per il pentimento ci sarà tempo. L’anno speciale indetto da Papa Francesco ha già acceso un emozionante dibattito nelle stanze del potere, anche quelle in cui non si decide nulla. Ovunque si discute su come saranno spesi i pochi soldi destinati all’evento, mettendo in secondo piano molti dei problemi emersi dalle indagini. A quelli pensa unicamente il magistrato Alfonso Sabella, l’assessore alla legalità che per contrastare la corruzione ha già messo in campo una serie di misure: dall’azzeramento delle somme urgenze e a quello degli affidamenti diretti. Il futuro, per il commissario/assessore, è la tecnocrazia digitale. Con un paradosso: gli stessi sistemi informatici che a novembre rischiavano di far saltare Marino per la le multe alla sua Panda (il sindaco denunciò l’intrusione di hacker nel sistema del Campidoglio), ora nella Roma post Mafia Capitale rappresentano l’avamposto della lotta alla corruzione. Il primo passo di questa nuova era è ad Ostia, dove un computer ha scelto i membri della commissione (anche se uno dei selezionati si è giá tirato fuori), chiamata a valutare le offerte pervenute per il bando in due lotti dei servizi connessi alla balneazione per la stagione 2015 sulla spiaggia libera di Castelporziano. “È un meccanismo di trasparenza che non è previsto dalla legge, l’ho introdotto con una memoria di giunta – ha spiegato Sabella, facendo più che intuire la sua autonomia decisionale –  in maniera tale che la commissione non sia predeterminabile a priori”.

L’aula capitolina, intanto, si è trasformata in un cimitero degli elefanti, in cui un’opposizione zoppa, di tanto in tanto cerca di solleticare una maggioranza di fatto commissariata, ancora sotto shock dall’inchieste giudiziarie e contraria all’ipotesi, lanciata da Orfini, di azzerare le commissioni consiliari. Oltre all’opposizione “pulita” e agli alleati di governo di Sel, esclusi da quasi tutte le decisioni che contano e tornati a respirare solo dopo la polemica Smeriglio/Sabella/Marino, a pagare maggiormente lo svuotamento in atto degli spazi democratici sono soprattutto i cittadini, la cui  partecipazione alla vita politica è ridotta ai minimi storici. Piccole iniziative di quartiere, come le fiaccolate della legalità a Castelverde, dove abitava Salvatore Buzzi, iscritto alla sezione locale del Pd, o eventi più grandi come la manifestazione Spiazziamoli, che lo scorso marzo ha portato in centinaia di piazze migliaia di cittadini romani, dovevano divenire il manifesto di una nuova stagione politica che apriva i palazzi del potere alla cittadinanza attiva, facendo entrare quell’aria fresca generata dell’inchiesta di Pignatone. Eppure a 4 mesi di distanza dall’esplosione di Mafia Capitale non si è trovato il tempo di organizzare neanche un consiglio aperto sulle mafie.  Se è solo un caso, non è comunque un bel segnale. Per i nomi e cognomi, c’è tempo. Quello che separa la città dalle elezioni. Fretta non ce n’è: perché di sciogliere il Comune di Roma nessuno parla più. Del resto siamo nella capitale, mica nell’entroterra siciliano o calabrese: là a sciogliere per mafia ci vuole poco e, soprattutto, a perdere il posto, la sicurezza e i pochi soldi, sono amministratori locali sconosciuti, mica il cuore decisionale del Partito della Nazione di Matteo Renzi.

 

(Nella foto di copertina, il Sindaco Ignazio Marino e Matteo Orfini, commissario del Pd Romano)

TAG: Ignazio Marino, mafia capitale, matteo orfini
CAT: Città

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