
Milano
Mettetevi il cuore in pace: l’Italia continua ad avere molto bisogno di una Milano attrattiva
Le vicende giudiziarie degli ultimi giorni hanno abilitato un attacco diffuso contro Milano e il suo modello. È un fenomeno che già conosciamo. Il modello delle città winner-take-all, che avevo già approfondito nel mio saggio Periferie Competitive nel 2023, comporta onori e oneri per quelle città superstar che si trovano oggi al centro dell’economia della conoscenza. San Francisco, capitale indiscussa dell’innovazione tecnologica globale, è stata messa sotto attacco negli anni scorsi da osservatori che ne cantavano il de profundis. Si parlava di una città allo sbando, invasa dagli homeless, con le principali catene commerciali in fuga. Due anni dopo, San Francisco è tornata ad essere più centrale che mai: epicentro dello sviluppo mondiale dell’AI.
Cosa hanno in comune Milano e San Francisco, ma anche Londra e New York? Sono città vincenti, che attirano risorse da altri territori, come ci raccontava più di dieci anni fa Enrico Moretti nel suo celebre The new Geography of Jobs. E proprio per questo risultano antipatiche, soprattutto a chi non le vive o ne rimane escluso. In un’economia sempre più selettiva, queste città funzionano come calamite per capitale umano e finanziario. Sono luoghi dell’opportunità, ma anche della disuguaglianza.
L’apprezzamento del real estate che osserviamo oggi nelle principali città “superstar” è il riflesso diretto di questo nuovo paradigma economico. Pochi player si portano a casa la posta in palio. Una crisi da successo, come scrivevo proprio su questo giornale quasi due anni fa. Esiste dunque una “new urban crisis”, per usare l’espressione dell’urbanista Richard Florida. Una crisi fatta di città escludenti, chiuse, selettive. Un apparente paradosso rispetto a quella pluralità e apertura che, vent’anni fa, Florida individuava come le chiavi vincenti delle città globali.
Eppure, nonostante tutto, queste città continuano a funzionare. Proviamo allora ad andare oltre le vicende giudiziarie attuali, lasciando che la giustizia faccia il suo corso. Il vero tema, oggi, non è l’inchiesta in sé, ma il modo in cui ha riattivato una feroce critica al cosiddetto “modello Milano”. Ma cos’è, davvero, questo modello?
È lo stesso modello che diverse città alpha globali hanno già implementato nell’ultimo decennio. Un modello fondato sulla concentrazione di quei fattori intangibili che sono alla base dello sviluppo economico contemporaneo: capitale umano, capitale finanziario, infrastrutture cognitive. È un fenomeno che abbiamo studiato a lungo e che produce nuove economie di agglomerazione difficili da invertire una volta attivate.
Milano è dunque vittima del proprio successo? Sì, in parte. Ma anche del risentimento di chi ne rimane escluso. Dobbiamo uscire da una sterile e ideologica battaglia tra guelfi e ghibellini. La vera questione è: cosa vuole essere Milano da grande? La città deve oggi affrontare una serie di dinamiche escludenti che non sono molto diverse da quelle che esistono a Londra o a New York. La prima cosa da fare è accettare il proprio status e assumersi la responsabilità di un nuovo ordine di problemi.
Mentre il valore immobiliare della maggior parte delle città italiane declina, a Milano cresce. A testimoniarlo non è solo la speculazione internazionale, ma anche la presenza crescente di professionisti ad alto reddito: operatori finanziari, manager di multinazionali, professionisti della moda, del farmaceutico, del digitale. Questo genera pressione, alza i prezzi, produce esclusione. Ma non è un complotto, è una dinamica economica ormai ampiamente studiata e compresa.
Milano oggi alza i prezzi come se alzasse mura medievali. Ma è successo prima altrove: a Manhattan, nella City di Londra, a San Francisco. Non è colpa di Sala, né della Commissione Paesaggio. È un fenomeno più grande, che ha bisogno di nuove risposte.
Quindi tutto bene così? No, affatto. Milano deve pensarsi diversa. Deve diventare davvero una città metropolitana. Deve fare in modo che Rho diventi Hackney e Rozzano diventi Williamsburg. Serve una mappa urbana nuova, una connettività rapida ed efficace, un housing accessibile per la classe creativa (che spesso è cashless). Serve visione, governance, investimenti mirati.
Per citare Mark Twain, “the reports of my death are greatly exaggerated”. Così è per Milano. Mettiamo da parte i rant ideologici di chi critica Milano solo perché Milano “non può”. Proviamo invece a capire come renderla davvero una città globale, sostenibile, aperta, plurale. E a metterla in relazione con quelle province italiane che oggi vivono una crisi economica e di visione senza precedenti.
Iniziamo dalla diagnosi. Sforziamoci di produrre ricette nuove senza abbandonaci a sterili letture ideologiche. L’Italia ha bisogno di Milano. Mettiamoci il cuore in pace.
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