Il sindaco di Milano Beppe Sala

Milano

Milano, dove gli uomini che comandano sono pochi e sono tutti amici fra di loro

17 Luglio 2025

Anche il sindaco di Milano Beppe Sala, assieme a Manfredi Catella, Giancarlo Tancredi, Stefano Boeri, Alessandro Scandurra, Giuseppe Marinoni, e molti altri, figura nel registro degli indagati per la nuova inchiesta sull’urbanistica, per false dichiarazioni sull’identità o su qualità personali proprie o di altre persone e induzione indebita a dare o promettere utilità. La sua iscrizione, pur in una posizione processuale secondaria, basta in sè ad alzare ulteriormente la temperatura mediatica e politica, in una città che ha iniziato a scottare da ben prima di questa estate rovente, a poco più di sei mesi dall’apertura delle Olimpiadi e a un anno e mezzo dalla teorica fine del mandato di questa giunta e di questo consiglio comunale. Non c’è bisogno di dire che vale la presunzione di non colpevolezza per tutti. E in molti, da vari punti di vista, sollevano ragionevoli e fondati dubbi sulla tenuta giuridica di molte delle accuse avanzate dai pm. Del processo parleremo, se e quando si svolgerà. Intanto, come sempre, proviamo a parlare di politica.

«E adesso?» La domanda che gira, adesso, è questa: dopo l’ultima indagine, con una nuova spallata che arriva dalla procura di Milano sulla città e sulla sua amministrazione, un nuovo reticolo di rapporti raccontato da fiumi di intercettazioni, un nuovo filone di inchiesta che ovviamente non prova colpevolezza fino a sentenza, ma intanto arriva, forte e chiaro. Perchè stavolta non si parla più della faciloneria con la quale – è l’ipotesi accusatoria della scorsa inchiesta – si è permesso di costruire grattacieli al posto di capannoni, di immaginare e realizzare case di lusso dove prima c’erano cortili, portando al banco degli imputati qualche mariuolo, tremebondo o disinvolto, funzionario pubblico o privato architetto che fosse. No, questa volta, l’indagine della magistratura di Milano punta al corpo grosso del potere vero: la politica – rappresentata in un ruolo centrale nell’intreccio dell’inchiesta dall’Assessore alla rigenerazione urbana Giancarlo Tancredi – e il business di pertinenza, l’immobiliare, rappresentato in maniera somma ed eccellente da Manfredi Catella, che è senza dubbio il più importante immobiliarista milanese di questo inizio millennio. Per entrambi la procura richiede gli arresti domiciliari, e le parole che girano nei documenti sono “corruzione”, “concorso”. In quelle carte non sono da soli, c’è perfino il sindaco Sala, e anche di questo – degli altri, quindi – naturalmente riparleremo, ma intanto mettiamo a fuoco la storia principale: quella che per la prima volta coinvolge sulla scena giudiziaria un importante, elegante, mai davvero discusso immobiliarista milanese, Manfredi Catella. Giancarlo Tancredi, ex dirigente comunale promosso irritualmente assessore Sala, e da sempre bollato come “amico dei costruttori” tra quelli che avevano le mani nel calcestruzzo, e Giuseppe Marinoni, architetto ed ex presidente della Commissione paesaggio, sono evidente comprimari, almeno per chi si ricordi che prima viene chi detiene il capitale, e poi tutti gli altri.

Ligresti, così lontano, così vicino

Una volta, doveva essere la fine del 2009, partecipai a una presentazione di un bel libro, La Peste di Milano, scritto da Marco Alfieri, collega e amico,  pubblicato da Feltrinelli. Il libro raccontava il potere milanese e le sue degenerazioni nel primo decennio del nuovo secolo, tra i protagonisti di quella storia c’erano i vecchi campioni del capitalismo italiano. Marco Tronchetti Provera, Cesare Geronzi, Salvatore Ligresti, per fare qualche nome. L’evento era a inviti, non aperto al pubblico, e tra gli invitati c’era Manfredi Catella. Intervenne per primo, a fine presentazione, per rispondere indirettamente a una delle critiche forti presente nel libro, quella a un capitalismo tutto fatto di relazioni opache e risalenti, che soffocavano forze nuove e talenti emergenti. Disse, più o meno, che coi vecchi – quei vecchi – lui aveva un ottimo rapporto, erano persone con cui si poteva parlare e lavorare. E che poi comunque a un certo punto ci sarebbe stato un naturale ricambio generazionale. Parlava probabilmente soprattutto di Salvatore Ligresti, paradigma del capitalista del mattone di vecchia generazione, siciliano a Milano come Enrico Cuccia, col quale aveva condiviso pezzi importanti di strada. Sempre un piede dentro e un piede fuori dai palazzi della politica, dalle inchieste giudiziarie, dalle accuse di qualche pentito di mafia che però non trovano mai riscontri per arrivare a sentenza. Ligresti e il giovane Catella si erano conosciuti bene, gli intrecci tra i terreni del primo e i piani di sviluppo del secondo – prima manager di Hines, poi imprenditore in prima persona di Coima – erano tanti. A Catella non è mai mancato, tuttavia, il senso del tempo, nè della comunicazione: le tracce del suo legame con Ligresti spariscono, e resta la sua immagine di imprenditore intelligente e illuminato, che porta soldi da mezzo mondo su Milano, a valle di un progetto – Porta Nuova – approvato dalla giunta Moratti e inaugurato con Pisapia sindaco. Della persona si dice che è riservato, mediamente affabile, che non ama ostentare ricchezza, che si ricorda di tutti o quasi quelli che incontra, che a casa sua si respira aria di normalità e understatement.
Catella non è l’unico, tra i coinvolti nell’ultima inchiesta, ad avere avuto una certa confidenza con Don Salvatore.
Anche l’architetto Stefano Boeri -Presidente della Triennale dove è in corso di svolgimento un’esposizione sulle diseguaglianze da lui curata – con Don Salvatore aveva buoni rapporti professionali, tanto da firmare uno dei progetti più importanti dell’ultima fase della carriera dell’immobiliarista siculo. Parliamo della Cittadella della Salute, benedetta da Umberto Veronesi, e che avrebbe dovuto rafforzare il sistema sanitario privato lombardo, oltre che dare un po’ di salute al traballante impero di Ligresti. Ma la situazione era già compromessa, e arrivò prima l’istanza di fallimento della posa della prima pietra. La leggenda vuole che Don Salvatore, uscendo sconfitto dall’ultima riunione in Mediobanca, quella nella quale si decise che la procedura fallimentare era inevitabile, fosse consolato da un vecchio amico, l’avvocato Ignazio La Russa: “È dura da accettare, Ingegnere, ma è la cosa migliore per tutti”.

La nuova Milano costruita su relazioni antiche

A ben guardare, la “nuova” Milano, quella sviluppata da Catella e disegnata da Boeri, quella che già in quel 2009 puntava a trasformare lo skyline di Zona Fiera con Citylife e quello di Porta Nuova col Bosco Verticale e la Torre Unicredit, ha un cuore antico. La sostituzione del capitalismo relazionale dei Ligresti e dei Pirelli, dei patti di sindacato di Rcs e di Mediobanca, avveniva senza spargimenti di sangue o di detersivo, come cantava De Andrè raffigurando la Milano già decadente della fine degli anni 80, che girato l’angolo avrebbe trovato sulla sua strada le manette di Tangetopoli. I nuovi protagonisti avevano conosciuto bene i vecchi, erano cresciuti alla loro corte. Gli equilibri del capitalismo italiano e globale cambiavano, serviva la capacità di parlare con gli investitori esteri, i fondi del Qatar, le delegazioni internazionali che dovevano prima assegnarci e poi venire a visitare Expo. Quella Expo che ad esempio divise profondamente, fino al litigio, il commissario Sala e l’architetto e poi assessore Boeri, che avrebbe voluto esserne il dominus architteonico e intellettuale. I due poi ritrovarono un sodalizio, se Boeri – presidente di Triennale da un pezzo, grazie al volere di Sala – gli scriveva “da amico”, uno “warning”, un avvertimento, sul fatto che i ritardi nell’approvare il Pirellino erano un problema per tutti. La stessa Expo però unì e cementò lo stesso Sala e Christian Malangone, uno dei pochi di cui si fida ancora oggi tanto da aspettare che scadessero ragioni din interdizione giudiziaria per riaverlo vicino a sè come direttore generale in Comune. Anche in questo procedimento Malangone non è indagato, ma in questo e nei precedenti, e parlando con chiunque ha confidenza coi corridoi di Palazzo Marino, la sua centralità risulta assoluta: non si muove foglia che Malangone non voglia. La macchina del Comune risponde a lui, la macchina dell’amministrazione, certo, ma anche quella della politica. In qualche caso le due macchine trovano dei punti di giuntura unici, è il caso di Giancarlo Tancredi, assessore alla rigenerazione al centro di questa indagine. Per qualche decennio fa il funzionario comunale, si occupa “con particolare competenza sui progetti urbanistici complessi più importanti della nostra città, tra i quali l’area “Porta Nuova”, il Portello, City Life, Expo 2015 e MIND, la Darsena, gli scali ferroviari dismessi, Santa Giulia e l’area dello Stadio”. È in quegli anni che stringe rapporti buoni, secondo diversi osservatori “molto buoni, quasi troppo”, con i costruttori milanesi, a cominciare dal principe Catella. Sala poi lo vuole assessore nella sua seconda giunta, al posto di un politico giovane ma già di lungo corso, come Pier Francesco Maran, che proprio sullo sviluppo del Pirellino, come immaginato da Catella e Boeri, si era messo di traverso scontrandosi apertamente anche con Sala.

Dimissioni: perchè Bardelli sì e Tancredi e Boeri no?

Ed è qui, proprio qui, al capitolo “scelta delle persone”, che si pone un tema politico che pare, al momento, molto più rilevante di quello giudiziario, almeno per quanto riguarda la posizione di Sala. Mentre la politica tace, il Pd nazionale continua a prendere tempo, e quello milanese laconicamente annuncia che “sosterrà Sala nel lavoro dei prossimi due anni”, senza poter spiegare la nuova linea su San Siro nè su null’altro, una riflessione sulla traiettoria politica che ha portato fin qui sembra doverosa. Nella prima giunta Sala, in continuità sostanziale con quella di Pisapia, anche e soprattutto dal punto di vista del personale politico, tutto è filato piuttosto liscio. Poi, dopo la crisi del Covid e l’esplodere dell’inflazione e del caro-casa, proprio quando serviva una presa più forte e credibile su una città sempre più sofferente – e insofferente, anche -, la giunta è sembrata liquefarsi. A partire da un sindaco che è sembrato sempre meno appassionato di un lavoro diventato sicuramente più difficile, e meno disponibile a confrontarsi con critiche che sì, a volte sono idiote, ma non sempre, non tutte. E poi, giù per li rami, nelle figure di assessori spesso umbratili, fragili, travolte continuamente dall’ultima polemica e mai in grado, apparentemente, di guidare il percorso anziché subirlo. E poi c’è appunto il grande dossier abitativo e urbanistico. Lasciata libera la casella della casa da Maran, candidato e poi eletto alle elezioni europee, Sala nomina Guido Bardelli, avvocato amministrativista, ex socio di Ada Lucia De Cesaris, già fumantina assessora di Pisapia e che punteggia gli ultimi mesi di intercettazioni quanto il prezzemolo è presente nella cucina italiana. Bardelli si deve dimettere molto in fretta, perchè in un’intercettazione della penultima inchiesta parlava male di Sala, peraltro ben prima di essere assessore, e senza mai essere neppure indagato. E come può, a questo punto, rimanere al suo posto Giancarlo Tancredi, che invece in questa inchiesta è indagato, e in un ruolo centrale, secondo i PM? Vedremo se queste dimissioni davvero non arriveranno: ad oggi sembrano improbabili, e la linea prescelta sarebbe quella dell’immobilismo. Quel che sembra certo, però, è che due scelte chiave, sicuramente fatte in buona fede almeno fino a prova contraria, hanno portato problemi alla giunta e alla città, e in definitiva si sono rivelate sbagliate. A proposito di dimissioni che non arrivano, che continuano a non arrivare, che singolarmente nessuno chiede, ci sono quelle del presidente di Triennale Stefano Boeri. Che dovrà affrontare un processo per il BoscoNavigli, che potrebbe doverlo affrontare per la Biblioteca Europea, e che oggi si trova indagato anche su questo nuova vicenda, eppure a nessuno viene da sollevare una domanda sull’opportunità. In tutti questi casi – quello di Tancredi, quello di Boeri, tutti gli altri casi simili – viene da pensare che chi dovrebbe chiedere un gesto di dignità non sia abbastanza forte da poterlo fare, o possa non reggere le conseguenze dell’impatto. Sono cose che quando si naviga da sempre nel mare del potere si sanno, senza neanche bisogno di uno warning.

Allargare le maglie, aprire le finestre

L’obiezione è nota, ed è anche molto ragionevole: i meccanismi di selezione, sviluppo e relazione della classe dirigente sono questi. Funziona più o meno così dappertutto, ed è ingenuo pensare che possa essere diverso da così. Però, a costo di prenderci degli ingenui, vorremmo pensare che un futuro diverso, più equilibrato e inclusivo, per una città naturalmente portata – per dinamiche locali e globali – ad attrarre capitale e ad espellere chi non ne ha, passa anche di qui. Da dove? Passa dalla capacità di allargare le maglie dei rapporti, dall’idea che i rapporti privilegiati e risalenti finiscono naturalmente per rafforzare i privilegi degli insider e indebolire i diritti degli altri, sia nella sostanza sia nella percezione. Passa dunque dalla volontà,  di immaginare che nei processi decisionali, quelli formali e quelli informali, non ci sia posto solo per chi un posto ce l’ha da sempre, ma anche per chi se lo merita, e poi per chi sa rappresentare davvero la voce del bisogno. È un vasto e ambizioso programma politico: mi sembrerebbe il programma giusto per chi voglia governare la Milano di domani, sanando le fatiche, le delusioni e le rabbie ereditate da quella di ieri e di oggi. Sarebbe anche un modo per provare, dopo oltre trent’anni, a dare alla politica il ruolo per il quale esiste.

(Immagine di copertina tratta dal profilo Facebook di Beppe Sala)

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