Il piccolo commercio sta morendo per mancanza di domanda o di domande?

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30 Settembre 2015

Di commercio di vicinato e negozi di prossimità si parla tanto. Non c’è amministrazione locale, comitato di zona o partito politico che, in qualche occasione, non abbia speso parole in favore di queste realtà.

“Vivificano i quartieri”, “Garantiscono maggiore sicurezza”, “Rappresentano una risorsa anche per la socialità e la qualità della vita dei centri abitati”.

Se interrogati, anche i consumatori – nella maggior parte dei casi – dichiarano apertamente la loro preferenza per quei negozi che garantiscono ancora un “rapporto umano” fra venditore e cliente.
La teoria però – è cosa nota – molto spesso dista dalla prassi e in quasi tutta Italia le serrande dei centri storici, tradizionalmente sedi di questo tipo di attività, restano abbassate.
Qualcuno accusa la politica delle multinazionali, i loro prezzi, i loro orari di servizio, la loro capacità di raggiungere in modo capillare ogni fascia di cliente. Altri sottolineano le responsabilità delle amministrazioni locali nell’edificazione e nella gestione dei grandi comparti commerciali che, ormai da decenni, sorgono nelle prime periferie di tutto il Paese.

Infine c’è chi ritiene si tratti di una “naturale” evoluzione dei consumi. Le persone, spinte dalla crisi, puntano all’offerta più economica e, assillate da ritmi di vita sempre più incalzanti, decidono di fare acquisti all’interno di spazi che garantiscano loro la maggior resa nel minor tempo di spesa.
Questa lettura possiede certamente la sua validità, ma ci porta – in qualità di consumatori (forse l’unico ruolo universale che ci accomuna tutti) – ad un quasi completo scarico di responsabilità rispetto alle nostre scelte. Costretti dal bilancio familiare, spinti dal desiderio di “sbrigarci” per avere a disposizione una piccola fetta aggiuntiva del poco tempo che ci resta finita la giornata di lavoro, siamo “costretti” a comprare in determinati luoghi e secondo determinate modalità.

Questo tipo di approccio risparmia le fasce di reddito alte.

Chiunque abbia a che fare con la promozione o le strategie di vendita sa che, mai come oggi, coloro che decidono di fare acquisti “importanti” (nel cosiddetto settore del lusso ad esempio, ma anche nei comparti non “massificati” come quello di alcune nicchie dell’alimentare biologico, DOC o DOP) devono essere allettati da quelle che vengono definite come “l’esperienza di acquisto” e “la narrazione del prodotto”. Non basta offrire su uno scaffale un oggetto “costoso”, ma l’acquisto va preparato con un’adeguata informazione (non più di stretto carattere pubblicitario) e soprattutto presentato attraverso un’esperienza gradevole. Un bel negozio, personale cortese, modalità di relazione o assistenza curate nel dettaglio. Il lusso di dedicare il proprio tempo a scegliere secondo il proprio gusto/desiderio.
Certamente anche in questi settori vigono mode e tendenze, ma a fronte di una più alta disponibilità economica il cliente richiede un servizio più articolato. Lo stesso servizio che, solo una trentina d’anni fa, veniva riservato al “cliente” in quanto tale. Il cambiamento delle modalità di acquisto, i ritmi più serrati, la maggior fragilità temporale del prodotto, l’allentarsi (o la totale scomparsa) del rapporto cliente/venditore sono la causa o il frutto di un mutamento dell’offerta?
In questi giorni la libreria Ubik di Parma ha lanciato un appello sulla stampa per scongiurare la chiusura. Una storia già letta tante volte e in sono in molti ad agitare il fantasma della crisi dell’editoria, a gridare alla morte della cultura e alla minaccia degli e-book. A conti fatti però i libri si vendono. Forse non tutti leggeranno I fratelli Karamazov nel tempo libero, ma il libro – in quanto bene – è lontano dall’essere archiviato come reliquia del passato. E il libro – ad esclusione di alcune offerte puntuali – tende ad essere un bene a “costo fisso”. Comprare una nuova uscita in catalogo sugli scaffali di un supermercato o sui ripiani di una libreria del centro ha, nella larga parte dei casi, lo stesso costo, così come, ad esempio, una buona fetta dei prodotti di cosmesi.
Viene dunque meno la scusa del budget di spesa. Resta il discorso delle tempistiche di acquisto. Certamente per una persona che ha un’ora scarsa per spostarsi dalla periferia al centro e fare una spesa risulta più semplice recarsi in auto al centro commerciale. Ci si dimentica, forse, che un tempo il momento dell’acquisto, almeno per quanto riguarda i beni non di prima necessità, era uno spazio da dedicare a sé stessi e non un dovere o l’ennesima attività “da svolgere”, e che per chi può permettersi il lusso dell’acquisto consapevole lo è ancora.

Ma stiamo parlando di un potere o di un volere? Se nel momento in cui consumo agisco, se il momento dell’acquisto rappresenta un’azione di “gratifica” (in senso lato) per il mio lavoro svolto chi sto gratificando quando mi accontento di un’esperienza mordi e fuggi? Siamo convinti che, a parità di potere d’acquisto (perché un certo libro o il rossetto di una data marca hanno quasi sempre pari costo nel negozio e al centro commerciale) ci venga offerta la stessa cosa?

L’impressione è che, convinti di risparmiare, velocizzare, “fare meglio e prima”, si sia perso di vista il senso dell’atto di acquisto, ovvero trarre il maggior beneficio possibile dal nostro – piccolo – investimento.
Entrando nella libreria del centro viene da chiedersi come mai le persone – la sottoscritta in primis – decidano di comprare altrove. Le risposte possono essere tante, ma liberati dalle “cause esterne”, dobbiamo avere l’onestà di pensare che si tratta comunque di una scelta. Non siamo costretti a comprare altrove, decidiamo di comprare altrove. Forse proprio mentre ci lamentiamo della “morte” dei nostri centri storici e della scomparsa della bottega all’angolo.
Dare una risposta alla domanda “Perché lo faccio?” non salverà forse il commercio di vicinato, ma potrebbe salvarci dall’essere, ogni giorno di più, felici praticanti di una filosofia di vita che solo illusoriamente crediamo perfettamente funzionale alla nostra felicità.

TAG: acquisti, centri commerciali, commercio di vicinato, crisi, Parma
CAT: commercio

2 Commenti

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  1. lucia-fantetti 8 anni fa

    la cosa è semplice, per fare impresa ci vuole capitale, e invece sempre piu fanno impresa persone che non hanno un lavoro e chiedono prestiti alle banche per aprire un negozio, cosa che è da scellerati. Invece lo Stato dovrebbe essere lui a fare impresa per garantire lavoro al proprio popolo e cosi farebbe impresa privata chi realmente trova vantaggioso fare impresa e non come ripiego per mancanza di lavoro

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  2. gianluca.greco 8 anni fa

    Direi che certi cambiamenti nei comportamenti di acquisto sono in gran parte il frutto di un riconfigurazione della filiera. Se una trentina d’anni fa il servizio al cliente era mediamente molto alto era dovuto al fatto che i margini sul venduto erano altrettanto alti, pertanto le aziende commerciali potevano permettersi più personale. Oggi un livello di servizio molto alto è economicamente sostenibile solo in certi settori. Il fatto che sia economicamente sostenibile sulla carta non significa poi che sia premiante.

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