La multinazionale licenzia? Fenix Pharma rinata grazie ai lavoratori
Uno può pianificare il rischio, calcolare le variabili, aggiustare le strategie, tracciare il sentiero e studiarne le possibili diramazione: poi però arriva un momento in cui la vita, semplicemente, accade. ed è più forte di ogni logica, un bivio ignoto.
È il giorno in cui la tua azienda, una grossa multinazionale, ti comunica che chiuderà. Il giorno in cui ti dice che qualcuno, seduto in qualche ufficio dall’altra parte dell’oceano, ha deciso che tu sei un costo non più sostenibile, una zavorra, che il mercato del tuo paese è stantio, che alcune scelte sbagliate del recente passato le pagherai tu. Non domani, no. Adesso. La colpa è di qualcun altro, ma è il tuo mondo a crollare.
Storie di crisi, storie di aziende che chiudono, come ne abbiamo lette tante -troppe- in questi anni. Non fa eccezione la vicenda che nel 2011 coinvolse i 151 dipendenti di Warner Chilcott, colosso farmaceutico americano che in quell’anno chiude repentinamente i suoi stabilimenti italiani (ed europei), appena tre mesi dopo avere comunicato ai propri lavoratori che non c’è nulla da temere, che «non ci sono elementi di preoccupazione che riguardano aspetti occupazionali, salvo imprevisti di grossa entità che esulano dalle previsioni aziendali».
Eppure «l’imprevisto di grossa entità» arriva, fulmineo, poche settimane dopo: si scopre che il farmaco principale in produzione, un prodotto per l’osteoporosi su cui si basa il business model aziendale, ha il brevetto in scadenza. Una scadenza, peraltro, prevedibile da lungo tempo. Come potevano i manager di Warner Chilcott non saperlo quando, nell’ottobre 2009, acquisirono per 3,1 miliardi di dollari Procter Pharma, la divisione farmaceutica di Procter & Gamble?
Un terremoto i cui effetti si verificheranno subito, e porteranno ad un’inevitabile diminuzione del fatturato, alla necessità di esplorare nuove strade, di rimboccarsi le maniche, di fare di più. Warner Chilcott, però, preferisce la soluzione semplice: chiudere, o per dirla nel gergo aziendale, “ristrutturare”. Tutti a casa.
Nessuno è d’accordo. Non lo sono certamente Demetrio Suraci, Daniele Mosetti, Daniela Angheri e Gianni Paolucci, quattro dirigenti che nell’azienda vedono ancora un grande pezzo di valore. E che, insieme all’ex collega Salvatore Manfredi, uscito da Warner Chilcott prima dello scisma e richiamato dai vecchi amici, decidono di incamminarsi per la strada meno battuta.
Così, nel giro di pochi mesi, l’azienda risorge. Con un nuovo nome, Fenix Pharma, una struttura di cooperativa, un nuovo modello di business, una rinnovata energia. Ai 5 soci fondatori si uniscono 44 ex dipendenti. I finanziamenti di Coopfond, il fondo mutualistico di Legacoop, e di CFI, la società per azioni che opera dal 1986 per la promozione delle imprese cooperative di produzione e lavoro, aiutano a sviluppare il nuovo progetto.
Questa l’idea, raccontata da Salvatore Manfredi: «Abbiamo acquisito la licenza per un prodotto generico similare al farmaco per l’osteoporosi che producevamo prima. Avevamo già dalla nostra persone che conoscevano bene le dinamiche di quel settore, di quella patologia, professionisti con un’esperienza ventennale da portarci dietro. Questo ci ha permesso di entrare nel mercato con una certa riconoscibilità».
Manfredi aveva lasciato Warner Chilcott poco dopo l’acquisizione degli asset di Procter&Gamble: voleva cambiare aria, sentiva che qualcosa, in quell’azienda dove aveva speso gran parte della sua vita lavorativa, si era rotto. La rabbia per una «operazione finanziaria mascherata da operazione industriale» c’è ancora oggi, ma Manfredi ha saputo trasformarla in energia positiva da cui ripartire.
«Sono stati i vecchi colleghi a richiamarmi. Persone che, in molti casi, ero stato io ad assumere, con le quali avevo condiviso un lungo rapporto lavorativo e affettivo», racconta Manfredi al telefono. Oggi presiede il Consiglio di Amministrazione ed è Direttore Generale della nuova Fenix Pharma, con sede a Roma – il nome stesso, “Fenix”, è un chiaro riferimento alla capacità di rinascita imprenditoriale – e ha saputo traghettare la barca, insieme ai colleghi, verso acque più calme.
I numeri della nuova cooperativa parlano da soli: dopo un 2012 difficile (500mila euro di perdite dopo tasse), il 2013 si è chiuso in pareggio sostanziale (fatturato 4 milioni, utile netto di 2mila euro) e il 2014 è stato un anno di crescita (5,6 milioni di fatturato, circa 30mila euro netti di utile). Il 2015 si prospetta roseo, con un fatturato nuovamente in aumento e che dovrebbe toccare i 6,8 milioni, grazie anche a nuovi investimenti e una diversificazione del prodotto (test tumorali, integratori).
Fenix Pharma non è un workers buyout convenzionale, poiché non c’è stato un acquisto di strutture, prodotti, o marchi dalla precedente azienda. Quello che è stato salvato, dal trituratore della crisi, è il capitale umano: persone, know-how, relazioni, energie che sono diventate la fonte di approvvigionamento della nuova realtà, ufficialmente catalogabile come startup.
I primi due anni sono stati complicati, ma era previsto: «Tutti noi abbiamo fatto sacrifici importanti. Nei primi 12 mesi ci siamo dati 1000 euro a testa di stipendio, da un terzo a un quinto rispetto alle precedenti buste paga. Abbiamo ottenuto in anticipo i tre anni di mobilità e li abbiamo reinvestiti nel capitale della nuova azienda. Abbiamo stretto i denti, finché Coopfond e CFI non ci hanno concesso una seconda tranche di credito per sostenere il nostro sviluppo». Il segnale che la strada imboccata era quella giusta.
“Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni”, è la frase di Eleanor Roosevelt che si legge nella brochure di presentazione di Fenix Pharma. L’obiettivo della cooperativa è duplice: patrimonializzare il sapere aziendale e le persone che ci lavoravano. Il tutto, però, mantenendo la necessaria discontinuità dal passato.
«Bisogna essere sempre pronti a negare lo status quo: ancora prima di raggiungere un obiettivo, devi pensare a quello successivo», è la ricetta di Manfredi per chi si sta cimentando in un workers buyout o in una startup. «Siate cauti e perseverate. Noi siamo una piccola azienda e tale resteremo, cercando sempre di mantenere l’affiatamento tra di noi e puntando sulla qualità, che vuole essere il nostro tratto distintivo».
«Abbiamo voluto fare un’azienda diametralmente diversa rispetto a quelle canoniche che si vedono nel mondo farmaceutico – chiude Manfredi -. Alla base c’è una scelta di tipo valoriale. Volevamo qualcosa che dipendesse in gran parte da noi, non da decisioni prese da altri quasi sempre fuori dall’Italia. Oggi siamo nelle nostre mani, e sta a noi garantirci un futuro. Difficile, forse, ma bellissimo».
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