Benvenuti nel senso comune

31 Maggio 2020

Ci siamo abituati, noi allevati in un campo di valori che un tempo aveva il nome di Sinistra, alla poesia di De André come farmaco contro la bruttezza tutta reale delle espressioni autentiche del popolo. Insieme al culto dell’educazione scolastica, che ci ha portati a prediligere scelte formative al di fuori di ogni volontà del mercato, abbiamo allevato e nutrito le categorie del “bello” e del “giusto”, che coincidevano con quanto ci è stato insegnato essere bello e giusto. Abbiamo appreso che pensare dell’astrattismo lirico “Sembra un dipinto di mio cugino Cosimo” o trovare estremamente ingiustificate le sonorità di Györgi Ligeti è da cafoni, e che se si vuole fare quel salto di qualità, se si vuole dare senso sociale all’essere i primi e gli unici laureati di famiglia, bisogna imparare a camuffare la propria matrice di gusto, bisogna mollare gli ormeggi del kitsch, esattamente come ci è stato insegnato a scuola: “Ma che potenza Fontana, lo adoro, l’immagine in negativo dello spazio infinito oltre la tela”, “Amo il teatro brechtiano, così indiretto, eppure così efficace”. Guai a dire che in Sala Verdi hai dormito: quello è un lusso che può permettersi solo chi è nato laureato tra laureati.

Kurt Lewin studiava la psicologia di chi faceva ingresso o uscita dai gruppi sociali adottando una metafora geografica, che risulta quanto mai utile a cogliere le infinite sottigliezze che, stratificate, diventano fenomeni manifesti ma complicatissimi. Ad esempio sottolinea come lo spostamento tra regioni del sociale non sia scevro da un controllo di documenti alla frontiera, che sono la scelta d’abito, il modo in cui parli, i film che ami, e che se si scopre che sei un infiltrato molto semplicemente verrai espulso o non esisterai; evidenziò anche come entrare da homines novi in un gruppo sociale privilegiato comporti un’enorme pressione sull’individuo, che per conformarsi deve adottare i nuovi canoni di comportamento con enfasi, rifiutando esplicitamente quelli appena perduti; ecco che si hanno donne transgender estremamente femminilizzate, stagisti snob da morire, dottorandi cattivissimi, imprenditori abbronzati con SUV in leasing, egiziani che militano in Fratelli d’Italia.

Queste premesse sono fondamentali per capire cosa è successo ieri in diverse città italiane, Milano in particolare, quando si sono riversate in piazza centinaia, in alcuni casi migliaia di persone indossando un gilet arancione, capitanate da un ridicolo personaggio in giacca e cravatta luminescenti. Hanno blaterato per ore di complotti, hanno esibito invidia sociale, hanno odiato, tutto in barba a qualsiasi regola sul distanziamento fisico e alla grammatica italiana. Ecco, benvenute e benvenuti nel senso comune.

 

L’orgoglio identitario degli ultimi

Da dove vengono queste persone? In La Penisola che non c’è Nando Pagnoncelli evidenzia un grosso problema dell’opinione pubblica italiana, ossia il fatto che vive in una bolla di malcontento e pessimismo tale da renderne le credenze totalmente staccate dalla realtà. Esiste una maggioranza di persone convinta che l’Italia sia un Paese poverissimo, pronto a essere saccheggiato dalle ricche Germania e Francia (a tal proposito: il senso comune è sensibilissimo al ritorno della Gioconda in Italia, pur non sapendo cosa sia la Gioconda). Sempre Pagnoncelli azzarda accorgersi che i numeri sulla disinformazione sono simili a quelli dell’istruzione, che in Italia – questa volta per davvero – non è messa molto bene.

Quindi questi sono gli ultimi, dobbiamo avere il coraggio di dircelo. Sono quei numeri sulla disuguaglianza che Fabrizio Barca va illustrando quotidianamente. Sono 45enni tornati a vivere con la madre dopo un matrimonio andato male e dopo aver chiuso il negozio di sigarette elettroniche. Sono i giovanissimi cacciati dai Centri di Formazione Professionale perché troppo agitati per maneggiare una chiave inglese. Sono le signore che fanno gli stalli in casa per cani o per gatti. Sono i vigili miracolati da un concorso pubblico. Sono gli anziani disiscritti dall’ANPI dove si dicono un mucchio di fesserie comuniste. Sono le signore che si giocano la pensione di invalidità alle macchinette.

Nel mio lavoro di psicologo di comunità sono sempre in tensione rispetto domanda “Come posso intervenire in questa realtà marginale senza agire da colone o da missionario convertitore?”. Non ci riesco sempre a dialogare con loro, ora che è da anni che sono dall’altra parte. A volte mi scappano parole che non comprendono e li fanno arrabbiare, a volte accade una magia e ci capiamo ed è bellissimo. È un esercizio di purezza, solo se sei puro si fidano di te. Pensano che io sia ricco, spesso, e ne ho visti di colleghi cascarci e mettersi a discutere con loro, mostrando il passaporto della propria precarietà lavorativa, e delle difficoltà ad arrivare a fine mese. Inutile. Loro sono gli ultimi, e quella degli ultimi è una regione sociale chiusa; se hai studiato e lavori in una cooperativa, mi spiace caro, ma sei fuori; se invece arrivi su un barcone passando per un lager libico, meglio che te ne torni a casa, perché non c’è spazio per altri ultimi.

Il senso comune non è bello

Il problema è che forse la Sinistra non è disposta ad accettare questa verità: che il discorso degli ultimi è spesso razzista, incolto, barbaro. Ha i motti del Gabibbo, l’ironia di Colorado Café, l’estetica di Uomini e Donne; esprime il non-sono-razzista-ma (anche se il disclaimer inizia a diventare superfluo). Nei progetti di rigenerazione urbana lottano per avere più parcheggi, in quelli di coesione sociale sono quelli che ti urlano in faccia che non hanno bisogno di te, in quelli di educazione ambientale rivendicano che la raccolta differenziata è una cazzata, in quelli di educazione finanziaria scopri che hanno un patrimonio più grande del tuo ma vivono nelle case popolari.

Le immagini dei gilet arancioni pongono enormi interrogativi al nostro sistema educativo e di welfare, che va totalmente ripensato, perché non ci sono più gli studenti scavezzacollo del Libro Cuore, né i poveri affamati del verismo italiano, ma un’orda carica di confusione ideologica e odio rivendicativo, gente tradita dal consumismo più becero e pronta a difendere col sangue gli ultimi baluardi dell’assistenzialismo (che mima molto bene i modi del consumismo, nel concedere senza domandare troppo). Complottisti, perché abituati a pensare che le loro vite sono regolate da altri che detengono il potere. Sovranisti, perché proiettano il proprio bisogno di rivalsa sullo Stato. Anarcoidi, perché hanno capito che a seguire quelle regole difficili che non hanno deciso loro a volte si rimane fregati.

È chiaro che se vogliamo occuparci di disuguaglianze, a titolo professionale o politico, dobbiamo imparare a stare vicini a queste persone gestendo l’orrore che ci suscitano. Non possiamo cadere nella tentazione del welfare sciovinistico, ossia del concedere diritti a chi si mostra simpatico e amabile con i servizi sociali. Né possiamo continuare a emettere diagnosi funzionali per i figli di questo disagio, predisponendo interventi educativi e psicologici di cui spesso non capiscono il senso. Dobbiamo prendere pasolinianamente coscienza del fatto che se siamo classe media professionale, indipendentemente dalla fatica che ci abbiamo messo per accedervi, siamo ormai privilegiati. La sfida dell’inclusione inizia da qui.

 

TAG: disuguaglianze, Gilet Arancioni, pappalardo
CAT: costumi sociali

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