Per la critica della violenza (elettrificata)

31 Marzo 2018

Quando Walter Benjamin redige il breve saggio Per la critica della violenza, incluso in Italia nella raccolta Angelus Novus denuncia anzitutto il volto ambiguo del termine, per cui Gewalt dice insieme autorità e brutalità. Nessun mezzo potrà mai esaurire il mondo dei fini; questi ultimi, sempre confusi in un progetto insieme intellegibile e pratico a tutti gli effetti, si disperderanno nell’avvenire sino a confondersi con il progetto stesso: allora la violenza sarà a un tempo il mezzo di ogni fine e il fine di ogni mezzo.

Ogni colpo inflitto contro un corpo diverrà sordo e batterà come a vuoto. Violenza è anzitutto quel potere esercitato attraverso la forza della propria autorità; similmente, tale autorità non si manifesta che per mezzo dell’esibizione pubblica della violenza cui è imprigionata come in simbiosi come pur attraverso lo strumento – per mezzo del mezzo, potrebbe scrivere qualcuno che desiderasse far dello spirito – di cui è investito. Come per Carmelo Bene il campo di battaglia fonico non era certo la pròtesi della voce, così per chi si serve della violenza, lo strumento, qualsiasi strumento, insieme estende il corpo – l’arma è tutt’uno con la mano, la voce che ingiuria è tutt’uno con la gola – ma pure lo protrae verso l’esterno: diviene allora il colpo esploso dall’indice sul grilletto, l’ingiuria che non si dissolve nel vento. Violenza è scandalo in quanto valica il corpo.

Si potrebbe confutare senza particolari giochi d’ingegno la massima per cui una genealogia delle armi non osserva che uomini nell’anelito di allontanarsi quanto più possibile tra loro. Dalla clava all’atomica, per così scrivere; dal combattimento corpo a corpo all’incursione dall’alto; dalla sicurezza della prossimità all’alienazione della sorpresa. Si potrebbe indagarne le ragioni nel territorio d’un pluralizzarsi dei fini: il corpo-a-corpo non anelava che a una soddisfazione immediata, l’atomica soggiace invece a una dialettica irrisolvibile tra società politiche. Si presume – sembra certo meno opinabile poter presumere insieme a una voce sì autorevole quale quella di Benjamin – che nessuna violenza sia esercitata per caso, s’iscrive anzi tra le pareti più anguste della ragione. Ogni violenza è razionale.

Annientata dalla teoresi, la fisicità della violenza pare soccombere: deve partecipare alla vita civile, allora ribolle coperta com’è di fango tutta grida e lamenti; preme per lacerare un diritto fattuale che teme le sia strappato. Una massima poco originale: in tempo di pace tutto va bene. Ma cos’è il tempo di pace? La placidità dell’esistenza, gli individui osservati ognuno singolarmente preoccuparsi del proprio nido, rinfrancare il focolare, anelare a un equilibrio che permetta una vita, perché no, felice. È in fondo, possiamo mutuarlo senza particolare preoccupazione dalle indagini di Michel Foucault successive al 1975, proprio con le società liberali che germoglia la tanto citata teoria biopolitica. Una relazione dialettica tra i poteri dentro cui nessun conflitto sia dato e la cui sintesi non approdi che a una placida Gestaltheorie.

Dentro la prassi, le società civili sembrano motteggiare la violenza è mia e me la gestisco io; è violenza a possesso universale, a nessuno ne è negato sia pur un briciolo. Sia mai che i cittadini non possano godere dei medesimi diritti di cui si fregiano i governanti. La mondanità cui è costretta, le permette di proliferare; legalità e giustizia vi trovano una coincidenza. Tutt’intorno il linguaggio della Gewalt, parla di violenza con violenza; ha massima cura di non fastidiare nessuno in nome d’una presunta morale. Serpeggia, scruta, ammira: s’insinua nell’ordine del discorso. È ormai norma.

Tale sembra la ragione per cui il corpo di polizia di sei città italiane sarà dotato di pistole elettriche. Sovrano, ricordano alcune celebri battute di Carl Schmitt in seguito anatomizzate da Giorgio Agamben, è colui che ha il potere di decidere dello stato d’eccezione, vale a dire della sospensione giuridica durante una lacerazione della norma; ma pure, nei governi dove il sovrano sia stato annientato, la relazione tra ordine ed eccezione raggiunge uno stato di placidità. Qualsiasi eccezione diviene pallida e innocua in quanto il potere governativo, in una ponderazione dai tratti sovrumani, ha tenuto per sé pure tratti che avrebbero altrimenti potuto costituire di quell’eccezione il seme germinale. Nel disequilibrio cui il criminale pur rischia di far cadere l’intera società civile si presagisce l’incarnato della singolarità eccezionale. Come difendersi? Tenendo conto d’una violenza che se non prevede la prossimità quasi promiscua cui il manganello costringe i corpi, neppure può adagiarsi sopra armi da fuoco o atomiche. C’è bisogno che l’espressione poliziottesca dei governi mantenga a distanza il criminale ma pure riesca a esercitare su di lui Gewalt, autorità e violenza, autorità per mezzo della violenza. L’estetica dell’esistenza affiora allora dal territorio del simbolico. Territorio elettrificato. 

TAG: polizia, Taser, violenza
CAT: costumi sociali

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