Decine di mendicanti che ogni giorno «chiedono»: inevitabile il senso di colpa?
All’insorgere dei primi flussi migratori, inizio anni ’90, una persona straordinaria come Grazia Cherchi, allora critica letteraria dell’Unità e un sacco di altre cose, scrisse, nella sua abituale leggerezza consapevole, una piccola cosa rivoluzionaria. Ponendosi il problema di come affrontare la sofferenza altrui nella nuova declinazione globalizzata, cercò una strada possibile, ovviamente personalissima e senza pretesa d’imporla a chicchessia. Ciò che muoveva la sua riflessione erano gli incontri quotidiani con persone che “chiedevano”, che materialmente elemosinavano, che si aggiungevano, come novità sconvolgente, ai nostri mendicanti italiani.
Il valore rivoluzionario di quello scritto di Cherchi fu esattamente nella sua “visionarietà”, racchiudendo in un’unica soluzione questione privata e sguardo sul mondo. Lei “sapeva”, o meglio percepiva culturalmente, che quell’inizio, ancora riconducibile a un fenomeno circoscritto, sarebbe diventato nel tempo un angoscioso tormento per l’umanità, e si chiedeva da persona singola e sensibile come affrontarlo materialmente nelle nostre città. In parole povere: escludendo di poter dare un soldo a ogni mendicante che incontri, quale poteva essere una strada convincente per scegliere “questo” piuttosto che “quello”?
È un problema che noi, nel nostro tempo, abbiamo sotto gli occhi tutti i momenti, e quei momenti vissuti da Grazia Cherchi si sono decuplicati, se non centuplicati. Ogni giorno, nelle nostre città, soprattutto nelle grandi città, incontriamo un numero abbastanza straordinario di persone che chiedono, la gran parte extracomunitarie.
La Cherchi scelse una strada molto intelligente, che le apparteneva interamente, probabilmente favorita da numeri non ancora così pressanti. Decise di scegliere, di “privilegiare” una situazione, una sola, alla quale avrebbe devoluto l’intero, piccolo, tesoretto di quella giornata. Si faceva portare dalla sua sensibilità, con cui cercava di valutare la situazione che aveva preferito alle altre, in base a una valutazione per forza di cose monca di tanti particolari e ovviamente frutto anche di istintualità. Quella era la «sua» scelta definitiva, che poi le sarebbe servita nel corso della giornata per tamponare il senso di colpa quando, ad altri pretendenti, avrebbe dovuto opporre il suo no. Fu uno schema straordinario, quello di Grazia Cherchi, perché metteva insieme ragionamento e istinto e che proiettandosi verso un’unica direzione non si disperdeva in mille rivoli che probabilmente, a fine giornata, avrebbero lasciato un senso di incompiutezza.
Ma oggi sarebbe uno schema riproponibile con l’ampiezza attuale del fenomeno? Ammetto di averci provato, senza peraltro trovare una chiave. Oggi scegliere una sola situazione, alla quale girare il nostro aiuto economico, rispetto a tutte le altre, significa davvero che dovrai dire almeno cento altri no. Che pesano, sì pesano, anche in termini di senso di colpa (borghese o non borghese è comunque senso di colpa). Paradossalmente, mi libero di più quando incontro la difficoltà di una donna. Sapendone la dignità, anche il pudore e la conseguente difficoltà pubblica a “esibire” la propria povertà, ho una spinta immediata. Non scelgo e vado. Ma, appunto, le donne sono rare, hanno volti persino sereni, rassicuranti, nella casualità di un incontro.
Ci si dovrebbe far guidare dai bambini. Ognuno di noi dovrebbe avere per mano un bambino, o tirare fuori quello che è in noi. Oggi ne ho visti un paio straordinari, alla mano dei genitori. Incrociando questi ragazzi extracomunitari, salutavano con un “ciao” bellissimo, come avessero incontrato un compagno di scuola, un amichetto di giochi. L’eredità Cherchi dunque non esiste, il mondo è andato troppo veloce anche per una visionaria come lei. Ma è stata tra le poche a porsi un problema, totalmente dentro il suo tempo e i tempi che sarebbero venuti dopo.
Ps. Per dire della leggerezza di Grazia Cherchi. Stefano Benni, uno degli autori che lei “curava”, le dedicò una poesiola imperdibile: «Grazia ha telefonato/”Finalmente mi hai mandato/un vero romanzo/asciutto e stringato”./Grazia, da mesi di dirtelo tento,/era la lettera di accompagnamento».
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