“Sanpa”, il delirio di onnipotenza e l’incapacità di chiedere scusa

4 Gennaio 2021

Ero restio sullo scrivere di San Patrignano per il fatto che in questi giorni ci hanno scritto tutti.

Ero altresì restio perchè la tragedia collettiva della mia generazione, falcidiata dalla eroina, necessiterebbe di un romanzo collettivo che salvaguardi la specificità delle storie dei singoli, non uniformandole secondo cliché, allora e ancora oggi presenti.

Parlo, ad esempio, del fatto che le comunità terapeutiche hanno trattato solo una parte di chi aveva problemi di eroina, e che molti dei sopravvissuti ad oggi, non necessariamente sono passati dalle comunità. L’idea salvifica della comunità, quale strumento principe per salvare quella generazione, è il primo punto per affrontare la storia delle comunità cercando di ricondurre il ragionamento sulla valenza effettiva del concetto di salvezza. Non si salva chi non si vuole salvare. E chi trova una ragione per salvarsi non lo fa solo attraverso la comunità.

E, posso dirlo con certezza, questo è valso, nei primi anni delle loro attività, per tutte le comunità terapeutiche compresa San Patrignano. Volontà del singolo, che rappresenta bene uno degli intervistati del docufilm “SanPa, luci e tenebre di San Patrignano” nel momento in cui afferma che deve la propria vita a Vincenzo Muccioli nonostante lo stesso e nonostante San Patrignano.  In quelle parole Fabio pone sè stesso al centro della comunità,riprendendosi quella soggettività che lo stereotipo dell’eroinomane privo di forza e volontà, vorrebbe attribuire alla comunità quale strumento salvifico.

E veniamo al primo punto: dove trae origine questa onnipotente idea di poter salvare gli altri, che è costante nella nascita di quasi tutte le comunità terapeutiche, tanto da farne diventare il tratto dominante nell’immaginario collettivo di chi, in quegli anni, ha vissuto la drammatica esperienza dell’eroina? Trae origine da un’altra dimensione dominante, comune alla quasi totalità delle comunità nate in quegli anni, ovvero la presenza di una leadership carismatica che di suo avrebbe dovuto assicurare una forma di cambiamento per il solo fatto di essere vicini al capo. Poco importavano le competenze e molto contava l’impianto teorico di regole imposte dal fondatore.

Se contestualizziamo tale nascita negli anni in cui il servizio nazionale si era strutturato con interventi territoriali, di nozioni sulla dipendenza che erano, a dir poco, lacunose, riusciamo a comprendere come, le comunità, appaiono un grido lacerante nel silenzio assoluto di uno Stato perennemente in ritardo. E si comprende come questo grido lacerante abbia fatto presa su chiunque, a diverso titolo, ne fosse rimasto coinvolto.

La leadership carismatica rappresenta un governo del sistema che non prevede obiezioni di sorta in generale. Quando poi è rivolta a persone, le cui fragilità sono il frutto di sistematica emarginazione sociale e disperata, straziante avversione da parte anche dei familiari più stretti, l’obiezione diventa spergiuro, ingratitudine, ribellione. E va punita. E in questa punizione si differenziano, a partire da quegli anni, le varie comunità in un fiorire di impianti teorici, sempre molto empirici e poco scientifici che, probabilmente, riflettevano le biografie e le vite dei leader stessi. Più dolce e attenuata in alcuni e più severa o mortificante in altri, violenta psicologicamente o fisicamente in altri ancora.

San Patrignano apparteneva a questa ultima categoria all’interno di un impianto teorico educativo in cui botte, ceffoni, mortificazioni avrebbero dovuto irrobustire il carattere di persone che di umiliazioni, botte e ceffoni ne avevano subiti tanti nella propria vita. Vita di strada in cui l’umiliazione del prostituirsi o del furto erano pane quotidiano e le botte e ceffoni la logica conseguenza di retate o arresti da parte delle forze dell’ordine.

E veniamo al secondo punto: come è stato possibile che con tali premesse, a differenza della stragrande maggioranza delle comunità che hanno aggiustato il tiro ridimensionando onnipotenza e interventi terapeutici, l’impianto originario di San Patrignano abbia attraversato indenne tutti gli anni 80? Come è stato possibile, malgrado i progressi nella conoscenza della dipendenza, mantenere immutata una lettura moralistica, arcaica e punitiva di chi fa uso di sostanze? Come è stata possibile l’esaltazione collettiva di questa struttura, a fronte di altre 1200 comunità, che quotidianamente ospitavano un numero 15 volte superiore ai numeri di “Sanpa”, ma che non hanno mai rappresentato alcun modello per politica e società civile?

Credo che San Patrignano rappresenti, fedelmente, questo paese: paternalistico e arcaico nel rapporto con i propri cittadini ed etico nei confronti di chi esce dal seminato per intraprendere strade più impervie. Il mai sopito desiderio di uomo forte, capace di redimere il prossimo, riconducendolo sulla retta via, ha colpito il nostro immaginario finendo, buona parte della opinione pubblica,con l’immedesimarsi in San Patrignano e nel suo creatore. Un luogo magico, dove tutto è lindo, in ordine e fondamentalmente lineare. E, sempre in linea con questo paese, il racconto si è fatto epopea: Il bene contro il male e la vita contro la morte sullo sfondo di un bel paesello con le aiuole sempre curate. Un paese in cui non sempre il bene coincide con il giusto.

Periferici, e mai al centro, i tossicodipendenti, le loro infinite e variegate esistenze, biografie complicate a cui, ancora oggi, è negato ogni diritto di parola. Cittadini perennemente declassati, oggi, non trovano più i ceffoni ma incappano ancora in molte umiliazioni. A partire dai servizi organizzati più sulle esigenze degli operatori che non su di loro.

Ma questo è un altro discorso ed è la fondamentale ragione per cui faccio fatica a scrivere di San Patrignano in un paese in cui, a distanza di 25 anni dalla morte di Muccioli, si dibatte ancora se punirli o meno, invece di confrontarsi su come accettarli, accoglierli e, soprattutto, come curarli. Su come sostenere le loro famiglie senza far loro credere che è sufficiente rigore e severità per avviarsi verso la “guarigione”, ma che attenzione, accettazione dei fallimenti, ascolto, comprensione e cure possono fare molto. Come sempre, nelle vite particolarmente tribolate.

Forse il gran dibattito promosso dalla serie di Netflix, permetterà a questo paese un confronto più maturo volendo credere che il paese stesso, forse, è più maturo. E se ciò accadesse, la serie avrebbe compiuto un miracolo. O forse, passato l’interesse momentaneo per la vita di molti, il dibattito calerà fino a scomparire gradualmente o ad infuocarsi solo per un Vip trovato a pippare.

Per il momento, penso a Giuseppe Maranzano, figlio di Roberto ucciso dalla furia omicida di un sistema. Penso a Lui perchè nessuno, ad oggi, gli ha chiesto scusa. Sarebbe un bel gesto.

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CAT: costumi sociali

2 Commenti

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  1. marco-bellarmi 3 anni fa

    Penso che Lei abbia ragione: paternalismo e Stato etico sono caratteristici dell’Italia odierna come di quella degli anni ’80. Dimentica una cosa che i tossicodipendenti meriterebbero: narcotrafficanti e complici dietro le sbarre, una repressione dei grandi traffici, pagare meglio chi indaga sui pescecani, non spendere miliardi per arrestare microspacciatori in piazza che in mezza giornata vengono rimpiazzati.

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  2. marco-bellarmi 3 anni fa

    Muccioli si trovò alla fine di una catena di devastazione in cui la scelta è raccogliere i cocci o combattere la dipendenza da eroina a mani nude. All’inizio della catena c’è sempre la criminalità organizzata e la nostra incapacità di stroncarla, pur avendo uno Stato che si costerna, si indigna e si impegna… E poi getta la spugna, lasciando ai singoli la responsabilità di agire, come accadde ad Ambrosoli, Rostagno, Puglisi, Diana, Muccioli, uomini che hanno fatto più dello Stato.

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