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Costume

Sesso: quel divieto di parlarne in cui cresce la violenza

di Antonio Vigilante
10 Marzo 2019

Ieri sera mi sono masturbato guardando un video porno. Se me ne uscissi con questa confessione durante una cena tra amici, le reazioni andrebbero dal sorriso imbarazzato allo sdegno; e probabilmente qualche amicizia ne uscirebbe compromessa. Se lo scrivessi sul mio profilo Facebook, molti mi accuserebbero – è successo per molto meno – di indegnità morale, chiedendo il mio urgente allontanamento da scuola. E se iniziassi così un articolo, come sto facendo ora, molti si chiederebbero dove voglio andare a parare.
E’ convinzione condivisa da coloro che a vario titolo si occupano di società – sociologi, psicologi, educatori – che ci siamo felicemente lasciati alle spalle la repressione sessuale, e che siamo in una società perfino ipersessualizzata. “Uomini e donne ora ricercano il piacere sessuale fine a se stesso, rinunciando persino agli orpelli convenzionali prescritti dal sentimentalismo”, scriveva Christopher Lasch ne La cultura del narcisismo. Era il 1979. In Italia si inaugurava la stagione delle commedie sexy ed ogni città poteva vantare almeno un cinema a luci rosse. Oggi un sito come Pornhub può vantare più di trentatré miliardi di visite all’anno. Ma la liberazione sessuale si è arenata di fronte ad un ultimo tabù: la confessione.
Nella Storia della sessualità Michel Foucault coglieva la relazione singolare che la sessualità occidentale ha intrattenuto con il cattolicesimo: la pratica della confessione ha costretto l’uomo e la donna occidentali a narrare di continuo, in modi anche minuziosi (quale peccato? quante volte?), la propria sessualità. E’ una narrazione che resta confinata nello spazio privatissimo del confessionale, ma è un sempre una narrazione, ossia una presentazione di sé all’altro. Una conseguenza non secondaria della crisi del cattolicesimo – una crisi significativamente legata anche ai continui scandali sessuali dei sacerdoti – è la fine di questa forma di narrazione, alla quale è forse da attribuire il fatto singolare che, mentre il sesso è ovunque, mentre l’accesso alla pornografia è facile come mai in passato, raccontare la propria sessualità resta un tabù.
Si obietterà che esistono libri erotici che scalano le classifiche. Senz’altro: ma la lettura di un libro erotico, o pornografico (alcune pornostar oggi sono anche scrittrici: si pensi a Sasha Grey) sta alla narrazione della propria sessualità come la lettura di un romanzo noir o di un giallo sta alla confessione di un omicidio.
La conseguenza di questo divieto tacito è che non ci è possibile costruire un discorso comune sul sesso: diventiamo etimologicamente idioti, abitiamo mondi privati, chiusi in sé, monadi di piacere senza porte né finestre. E in questi mondi privati, che sono stati sottratti allo sguardo pubblico col pretesto dell’intimità e del pudore, cresce il disagio, il malessere, la patologia (che non viene spesso curata perché non si riesce a parlarne nemmeno al medico), la solitudine. E cresce la violenza.
Se il discorso di ognuno di noi sulla propria sessualità (la narrazione, non la teoria: di teorie sul sesso ne abbiamo fin troppe) è vietato, lo è a maggior ragione quello dei soggetti che più di qualsiasi altro la nostra società costringe fuori dalla scena. Le chiama prostitute, ma il più delle volte non sono che schiave. Donne costrette a subire quotidianamente decine di stupri, ragazze africane o dell’est, a volte minori. La narrazione della propria vita sessuale – del proprio martirio sessuale – da parte di una schiava è la narrazione oscena per eccellenza, il racconto che non bisogna consentire, che bisogna ridurre al silenzio. Credo che uno dei libri più importanti usciti negli ultimi anni in Italia sia Le ragazze di Benin City di Isoke Aikpitanyi e Laura Maragnani. Un libro uscito nel 2007 presso un piccolo editore (Melampo) nel quale una ragazza nigeriana, ridotta in schiavitù in Italia, racconta la sua storia a una giornalista di Panorama. Un libro terribile. Un terribile atto di accusa contro la nostra idiozia sessuale, che diventa stupro, uno stupro continuo, una quotidiana umiliazione della donna nera da parte dell’uomo bianco, una follia violenta che la parola prostituzione riesce a far entrare nei canoni della normalità, quasi della accettabilità sociale, con il contributo di quel razzismo che torna sempre utile per favorire lo sfruttamento, sessuale o lavorativo, della donna e dell’uomo nero. “Le ragazze sono la vittima designata, l’agnello sacrificale. Chiamale come vuoi ma la sostanza è sempre questa. Un’africana stuprata è un’italiana salvata. E l’africana stuprata non può parlare perché non le dà retta nessuno”, scrive Aikpitanyi. Non può parlare. E se parla, il suo discorso non diventa discorso comune. E non perché soggetti come gli schiavi africani sono esclusi dai nostri discorsi comuni, ma perché un discorso comune sul sesso semplicemente non esiste.
Ecco, dunque, dove volevo andare a parare: “ieri sera mi sono masturbato guardando un video porno” potrebbe essere non la provocazione di una persona sopra le righe, non l’uscita infelice di una persona che non conosce o non è in grado di rispettare le regole sociali, e nemmeno l’esternazione di un porco, talmente ossessionato dal sesso da parlarne a sproposito, ma un primo passo, rivoluzionario, per cominciare a costruire un discorso comune e districare l’intreccio di sesso e violenza, di sesso e sfruttamento, di sesso e distruzione che è tra le ferite più dolorose della nostra società.

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