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Costume

Sul set dei soccorsi e Charlie

di Luigi Vergallo
21 Gennaio 2017

A prescindere da questo titolo che potrebbe suonare un po’ rude, farò di tutto per cercare la delicatezza e la prudenza che la grande professionalità e il grande cuore dei soccorritori sicuramente hanno mostrato di meritare. Come molti altri nelle ultime ore, mi sono commosso ed entusiasmato leggendo e immaginando quanto hanno fatto quelle persone che per ore hanno marciato, hanno sfidato la notte, gli elementi e moltissimi pericoli per salvare alcune altre persone: quando si salva una vita non è mai soltanto una questione legata al dovere. Le notizie relative alle imprese dei soccorritori e alla presenza di non pochi superstiti hanno migliorato la giornata e l’umore di ognuno di noi. Una giornata che era iniziata con molta tristezza e con poca speranza e che si è invece conclusa come un inno alla vita e con la sensazione che ne avrebbero tirati fuori anche altri. L’Italia ha bisogno di persone così, persone che fra mille difficoltà e con mezzi carenti o talvolta anche assenti s’inventano un modo per raggiungere ugualmente il loro obiettivo. Mi unisco convintamente al ringraziamento collettivo che tutti dobbiamo a queste persone.
Poi, ciò che non faccio mai, ho ceduto alla tentazione di guardare alcuni dei video relativi ai soccorsi. Mi ha invaso una spiacevole sensazione che definirei “cinematografica”, una spiacevole sensazione di costruito. Quelle persone non potevano certo dimenticare la presenza degli strumenti atti a riprendere e registrare le immagini, e infatti non l’hanno fatto. Dall’applauso “chiamato” nel momento in cui veniva estratto il bambino fino al coro intonato dai pompieri, mi ha insomma investito la sensazione che la realtà fosse “meno realtà”. Mi sono chiesto: nasce prima l’idea del gesto altruista o il pensiero di come si svolgerà il suo intreccio, il racconto che ne sarà fatto? Sono un ricercatore di storia, sono uno che scrive. Non ho abbastanza strumenti per addentrarmi in modo saggio su questo percorso. La lettura che sto proponendo è empatica, partecipante e dunque coinvolta. Non mi trovo a mio agio con questa “vetrinizzazione” che non supera, che non sostituisce ma anzi diventa essa stessa realtà. Sono meno tranquillo rispetto ai grandi che l’hanno studiata. Ciò che mi pare di vedere in quei video mi lascia sgomento.
Nelle stesse ore Charlie Hebdo pubblicava invece la sua consueta vignetta: la morte che scia famelica sulla neve italiana. Mi è sembrata subito una raffigurazione precisa di quanto sta accadendo nel nostro paese. Di nuovo, ripresa e rilanciata dai telegiornali e dalla stampa italiana la vignetta ha suscitato l’indignazione di moltissimi nostri connazionali, gli stessi che invece si sono mostrati del tutto a loro agio e commossi dai video di cui si diceva più in alto. Brutale certo lo è, è brutale quanto si vuole. Forse non quanto quella già dedicata in precedenza al terremoto ma comunque brutale. Credo addirittura che dalle parti di Charlie abbiano tenuto conto delle polemiche suscitate in precedenza. È una pura supposizione, ma questa vignetta mostra la morte, non i morti. È più delicata. “Già che è successo – dicono quelli di Hebdo – tanto vale riderci su”. Ma non si tratta soltanto di questo. Io trovo che questa brutalità, questo modo così crudo e diretto costituiscano anche l’occasione, forse l’unica occasione che abbiamo di fare esperienza di quanto succede. Immersi nella giusta commozione e soddisfazione per tutti quanti sono sopravvissuti, immersi in quei video e di conseguenza in una certa dose di retorica, abbiamo un bisogno enorme di quegli intellettuali, di quei professionisti e di quei disegnatori che tutto dissacrano e riducono all’osso. Abbiamo bisogno di tipi diversi di luce. La luce della commozione e gratitudine sì, insomma la luce della speranza, ma anche la luce del non conformismo. La luce della molteplicità e libertà dei differenti sguardi e punti di vista. Sguardi e punti di vista che possiamo sempre – io credo – discutere e criticare ma mai censurare.

charlie hebdo
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