Scienza? E che mai sarà?

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22 Agosto 2020

Capita di vivere meglio senza aver fatto nulla perché accadesse. Capita di vivere peggio senza aver fatto nulla perché accadesse. E così pure per la morte. Tuttavia, se solo si avesse un po’ più di conoscenza di certi risultati scientifici e di che cosa vuol dire fare scienza, forse il nostro vivere e morire meglio o peggio non sarebbe totalmente lasciato agli eventi fortunati, o sfortunati, che la vita quotidiana ci pone dinanzi, come il cadere vittime di cialtroni e imbonitori. Forse conoscere di più certi risultati scientifici e che cosa vuol dire fare scienza consentirebbe di decidere meglio, sia quando siamo noi stessi coloro su cui ricade la scelta, sia quando lo sono i nostri cari o l’intera collettività. Conoscere un po’ di certi risultati scientifici e di che cosa voglia dire fare scienza dovrebbe permetterci di non cadere vittime di ciarlatani mass-mediali che in cattiva fede millantano un sapere che non hanno e il cui unico fine è un’esibizione del loro ego malato o una vita migliore per loro, a spese di una vita peggiore per noi. Ma – ricordiamolo sempre – la loro esistenza e il successo delle loro esternazioni farneticamenti sono dovuti a noi, o meglio alla nostra incapacità di riconoscerli come imbonitori e come cialtroni per via del fatto che non sappiamo un po’ di più su certi risultati scientifici e su che cosa voglia dire fare scienza. Forse (forse) se lo sapessimo, avremmo la possibilità di riconoscerli e di bandirli dalle nostre vite, invece di seguirli, ascoltarli e applaudirli (e magari anche pagarli).

In questi anni assistiamo a uno svilimento dell’impresa scientifica e dei suoi risultati applicativi, cui spesso si accompagna un’accettazione acritica di vie altre. Basti pensare all’attuale demonizzazione dei vaccini, alla pratica sempre più diffusa di affidarsi a metodi “alternativi”, a terapie anticancro non controllate basate sulla pura credenza irrazionale, a tutte le stupidate epidemiologiche, virologiche e cliniche che si sentono specie dai negazionisti o dagli attenuatori degli effetti mondiali della circolazione del virus SARS-CoV-2 che causa la COVID-19. Troppi parlano senza sapere che è scienza e quanto essa abbia fatto per la nostra qualità della vita e, ovviamente, di quali siano i suoi limiti.

Mancanza di conoscenza in buona fede, o cattiva fede nei confronti del metodo scientifico e della validità dei suoi risultati? O solo stupidità, che, sfortunatamente, talora conduce alla morte degli sventurati e delle sventurate che alla medicina tradizionale preferiscono pratiche pseudo-naturalistiche o sciamaniche non controllate e non controllabili. D’altronde la vita è loro e a loro spetta la scelta se vivere o morire. Il problema reale, però, nasce quando vorrebbero imporre le loro credenze stolte ai propri cari (figli e figlie comprese) e addirittura a tutti noi. E allora non è più una questione di scelte individuali, ma di scelte con ricadute negative sulla collettività.

Forse non è male, tenendo conto di quanto appena detto, riprendere che cosa voglia dire fare scienza – ovviamente solo a uso di coloro che non sono così stupidotti da pensare che sapere non serva. Insomma, alcune righe che forse potranno essere utili, specie per contrastare l’influenza nefasta che pericolosi e vuoti retori mass-mediali possono avere su chi, fra noi, si fa vanto implicito della sua poca capacità critica.

Prima di tutto – teniamolo a mente – la scienza cerca di rispondere a domande su come il mondo è e su come funziona la vita in esso. Ma la scienza non si caratterizza per queste domande, quanto per lo statuto delle risposte e per il modo con cui esse sono giustificate. E queste risposte sono le teorie scientifiche. E queste sono ipotesi, controllate e controllabili da risultati empirici ripetibili e riproducibili; sono rappresentazioni congetturali del mondo e della vita che abbiamo costruito per permetterci di catturarne certi aspetti al fine di conoscerli sempre di più.

Ecco, ripetibilità e riproducibilità dei risultati scientifici: le due condizioni su cui da sempre ci si trova d’accordo per caratterizzare la scienza empirica, che lo si voglia o che non lo si voglia. Il resto è altro. Sicuramente non per questo sempre di minor valore, ma qualcosa che ha un diverso statuto epistemologico e un diverso modo di essere giustificato (e in taluni casi giustificato solo da stridii, grida e quindi da un fallace argumentum ad baculum).

Un risultato scientifico – ripetiamolo – deve essere ripetibile (ritrovabile dallo stesso ricercatore, usando la stessa procedura sperimentale e la stessa tecnologia nello stesso laboratorio in tempi diversi) e riproducibile (ritrovabile da ricercatori diversi usando procedure sperimentali anche diverse, con tecnologie diverse in laboratori diversi e in tempi diversi). E sono proprio la ripetibilità e la riproducibilità che permettono il controllo della validità di un’ipotesi scientifica e quindi la sua accettazione temporanea o il suo rifiuto (ricordiamoci sempre che si sta parlando di ipotesi che possono essere sostituite da una migliore, qualora la si trovasse).

E questo vale, ovviamente, anche per le scienze biomediche, che avanzano ipotesi su quali possano essere le cause di una certa patologia e su quali possano essere le terapie più adatte per guarirla o curarla (guarigione e cura sono due cose da tenere ben distinte: il medico dovrebbe sempre curare e solo talvolta riesce anche a guarire). E questo vale, ovviamente, anche per la diagnosi clinica, che è una congettura sullo stato fisiopatologico di chi si presenta in ospedale o in un ambulatorio.

Tuttavia, ritorniamo sul generale. La scienza non è un’impresa privata che pochi eletti producono e consumano nel chiuso dei loro laboratori e uffici. In realtà è un’attività pubblica e non solo perché prima o poi la collettività intera (e quindi anche i suoi negatori e i suoi avversari) fruisce dei risultati che produce, ma anche perché si basa sul giudizio di pari che ne attestano la validità, ne controllano la bontà, ne eliminano gli errori e combattono le frodi.

Quali sono i passi per questa “collettivizzazione”? Come si va dall’aver trovato un certo risultato in un dato punto del mondo al farlo diventare qualcosa di controllabile e accettabile da chiunque (o almeno da chiunque ragioni)?

Prima di tutto occorre comunicarlo alla comunità internazionale degli scienziati (e alla società intera) e questo avviene attraverso la sua pubblicazione su una rivista specializzata. E non tutte le riviste hanno lo stesso valore, come ognuno che lavori in ambito scientifico sa e come tutti i cittadini dovrebbero sapere (sempre per evitare di essere circuiti da cialtroni e imbonitori).

Ebbene, ogni seria rivista che pubblica risultati scientifici (e così li rende di dominio collettivo) ha un responsabile editoriale (l’editor-in-chief) e una redazione con un gruppo di editor. Uno di loro (talvolta l’editor-in-chief stesso, talvolta un associate editor) compie una preliminare analisi del manoscritto considerando se l’argomento sia d’interesse per quella rivista, se i risultati presentati siano di sufficiente novità e importanza e se il metodo utilizzato per trovare i risultati e questi stessi siano accurati.

I manoscritti non soddisfacenti sono subito rifiutati (si parla di desk rejection e quindi di una rejection without review); gli altri sono inviati a due o tre esperti della materia (i cosiddetti reviewer o referee), di solito scelti dall’editor che ha fatto l’analisi iniziale. Questi esperti sono dei pari (da cui il nome peer review) che vengono scelti nella comunità che si occupa dell’argomento contenuto nel manoscritto e che lo analizzano in modo anonimo (di solito, l’autore non sa chi siano i referee e i referee non sanno chi sia l’autore) e gratuito (è un servizio che ognuno rende alla comunità di appartenenza). Come detto, a questi viene chiesta un’attenta lettura critica e una particolareggiata valutazione che evidenzi la bontà dei dati di partenza, del metodo usato e dei risultati ottenuti e se questi sono sufficienti per giustificare la tesi lì sostenuta.

Una volta ricevuti i giudizi dei reviewer, l’editor può decidere se accettare il lavoro senza modifiche (accept as is), chiedere modifiche minori o maggiori (minor o major revisions), oppure rifiutarlo (rejection). Nel secondo caso, una volta ricevuta dagli autori la nuova versione del manoscritto, l’editor la sottoporrà nuovamente ai reviewer (di solito gli stessi di prima) che lo rivaluteranno considerando se i suggerimenti e le critiche prima avanzate sono state accolte o se sono state obiettate in modo plausibile e appropriato. Una volta ricevuto il nuovo “verdetto”, l’editor-in-chief prende la decisione finale sulla pubblicabilità del manoscritto.

Due note. La prima: l’uso dei termini inglesi non è uno snobistico vezzo provinciale ma il fatto che la lingua franca della ricerca è l’inglese (che lo si voglia o meno, ma è così). La seconda: può capitare che si accetti un manoscritto pessimo o che si rifiuti un manoscritto ottimo. Questo “fa parte del gioco”. I referee e l’editor-in-chief sono uomini e come tutti gli uomini possono sbagliare giudizio (sia in buona che in cattiva fede). Ma, di solito, queste erronee valutazioni vengono poi riparate della comunità scientifica nel suo complesso.

Come si può intuire, la procedura di selezione degli articoli scientifici non è gerarchica (è una valutazione critica fatta tra pari) e riflette il fatto che la scienza è un’attività sociale. In effetti, non esiste una scienza che sia solo individuale, nel senso di un risultato scientifico ripetibile solo dal ricercatore che lo ha prodotto. Potenzialmente tutti dovrebbero avere la possibilità di ritrovarlo nei propri laboratori, ossia di riprodurlo. E tutti hanno la possibilità di pubblicare un risultato scientifico importante: non esiste nessuna cupola e nessuna cospirazione che possano impedire che una scoperta venga diffusa. Così, specie ora, è assai difficile che esistano “incompresi” o scienziati troppo “rivoluzionari” i cui lavori sono rifiutati perché non capiti da nessuno. Di solito chi porta in campo queste tesi è un soggetto con seri disturbi dell’ego che non accetta che il lavoro che ha presentato sia stato giudicato negativamente, nel senso che i dati di partenza non sono stati ritenuti validi, che il metodo usato è stato considerato debole o fallace e che i risultati ottenuti non sono né ripetibili né riproducibili. Nessuno è veramente così “rivoluzionario” da non riuscire a pubblicare un’idea di “straordinaria importanza” su una rivista seria a livello internazionale. Comunque, girando per il mondo non è difficile incontrare decine e decine di questi presunti incompresi, che in realtà sono solo propugnatori di idee strampalate con seri problemi di equilibrio mentale. Sfortunatamente, talora, nei nostri lidi trovano anche spazio, seppur a “Porta a Porta”, a “Le Iene” o nei programmi di Barbara d’Urso. Capita anche questo.

Si noti, per inciso, che lo stesso processo di selezione per la pubblicazione basato sull’arbitraggio cieco vale anche per l’ambito umanistico, specie per quello filosofico. E come ormai l’avanzamento scientifico è contenuto nei lavori pubblicati a livello internazionale nelle riviste più serie, così l’avanzamento filosofico è contenuto nei lavori pubblicati a livello internazionale nelle riviste più serie. E’ lì che si fa scienza ed è lì che si fa filosofia.

Che cosa succede nel caso di dati volontariamente manipolati da un ricercatore disonesto? E nel caso di risultati erronei, non confermati dagli studi successivi alla pubblicazione? Nel primo caso la frode, appena scoperta, è denunciata, l’articolo in oggetto viene ritirato dalla rivista che lo ha pubblicato e il suo autore non la passa certo liscia nella sua università o nel suo laboratorio (specie se lavora in un paese dove la meritocrazia e la correttezza sono premiate mentre la frode è moralmente condannata e legalmente perseguita). Nel secondo caso, prima o poi qualcuno pubblicherà risultati confutanti quelli lì contenuti. D’altronde, è questo che ci insegna la storia della scienza: la scienza è un’impresa sociale capace di autocorreggersi confutando con nuovi risultati ipotesi scorrette prima proposte.

Per concludere, sarebbe bene tener presente che quasi mai un singolo studio è sufficiente a trarre conclusioni definitive, per quanto prestigiosa sia la rivista che lo ha pubblicato. Di solito, una nuova scoperta diventa affidabile dopo essere stata controllata e confermata in parecchi articoli scientifici sulla base di dati sperimentali ottenuti in diversi laboratori (ecco perché la riproducibilità è essenziale).

Sempre più il numero di scienziati è in crescita; ne segue che ogni vera o presunta scoperta ha un pubblico sempre maggiore di critici competenti. Di conseguenza, gli errori sono sempre più rapidamente corretti e le frodi sono scoperte sempre più velocemente. Si noti che questo non significa affatto che non vi possa essere dissenso fra gli scienziati. D’altronde, proprio il dibattito arricchisce la scienza, come mostra il suo decorso storico. Tuttavia – teniamolo a mente – se la maggior parte degli esperti di un argomento è d’accordo su un’affermazione scientifica fortemente confermata empiricamente e in modo indipendente, mentre una minoranza non lo è, affermare che su quell’argomento “la scienza è divisa” significa sia non aver capito molto di come essa funzioni, sia – se si ha un pulpito mass mediale da cui parlare – comunicare una notizia sbagliata che chi non ha la giusta conoscenza e la giusta capacità critica potrebbe accettare con esiti pericolosi talvolta per sé, talvolta per la comunità in cui vive. Si tenga, comunque, presente che così è sempre stato nella storia della scienza. Vi è stata una minoranza che ha criticato e non accettato Galilei; una minoranza che ha criticato e non accettato Netwon; una minoranza che ha criticato e non accettato Darwin; una minoranza che ha criticato e non accettato Einstein; una minoranza che ha criticato e non accettato Heisenberg; una minoranza che ha criticato e non accettato Watson e Crick ecc. Però sempre la storia ha cancellato queste minoranze in quanto sostenevano posizioni che si sono rivelate teoricamente ed empiricamente errate.

Già quanto sopra, pur nella sua brevità, dovrebbe far riflettere sulla validità e affidabilità dei risultati scientifici convalidati dalla comunità scientifica e sul suo metodo. L’atteggiamento, oggi sfortunatamente diffuso, di diffidenza nei confronti della scienza, anche accompagnato o dovuto proprio a una mancanza di consapevolezza del suo metodo, può portare a conseguenze molto pericolose, quali il rifiuto di terapie mediche efficaci, il preferire pericolose vie suggerite dalle medicine alternative, il credere a cialtroni, il preferire negatori di risultati scientifici che per soddisfare il loro ego malato non esitano a far del male.

Per opporsi a questa tendenza, occorre che il cittadino faccia uno sforzo e recuperi strumenti appropriati per capire che cosa sia scienza e quale sia il suo reale portato conoscitivo e pratico. Deve sapere  distinguere la validità di un risultato empirico accettato dalla comunità internazionale degli esperti da una bufala offerta da qualche social o da qualche mezzo di comunicazione più tradizionale (televisione, giornalacci ecc.). Ricordiamoci, comunque, che non c’è una politica istituzionale (nel senso di policy) che protegga i cittadini delegittimando ciarlatani e opinionisti che non conoscono ciò di cui stanno parlando, o che parlano perché malati di protagonismo, o per puro interesse personale.  Tutto è demandato al singolo individuo, il quale deve capire che bisogna conoscere per vivere e bisogna conoscere per scoprire i ciarlatani e gli imbonitori.

TAG: Antiscientismo, Cultura, Filosofia, Filosofia della scienza, scienza
CAT: costumi sociali, Filosofia

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