Essere anziani in Italia: le conseguenze della vecchiaia negata

10 Febbraio 2021

Una mattina ti alzi, hai ottant’anni e qualcuno ha incominciato a decidere per te.

Non importa cosa tu abbia fatto nella tua vita precedente, che tu sia stato meccanico, maestro, dottore, sarto o barbiere: improvvisamente sei un pacchetto da gestire, una serie di funzioni vitali, sociali e affettive da mettere ordinatamente in fila, ciascuna al suo posto e con i suoi tempi. A volte qualcuno si salva, ma è l’eccezione non la regola. Superata una certa età il tono delle discussioni si smorza e c’è chi, quasi senza che tu te ne renda conto, inizia a parlare di te in terza persona. Solo che tu sei nella stanza. Cosa è meglio che mangi, l’orario migliore per uscire di casa, se è ancora opportuno che tu vada in macchina o usi la bicicletta. Forse è meglio che ti accompagni qualcuno.

In Italia, su una popolazione di 59.991.186 persone, 4.330.074 sono sopra gli ottant’anni.

(https://www.das.it/italia-e-anziani-alcuni-dati-istat/)

A parole rappresentano una risorsa per la società, sono portatori di valori, memoria, esperienza, ma nel quotidiano la narrazione si discosta, spesso profondamente, dai fatti. Gli anziani sono una realtà da gestire, soggetti di accudimento, né più né meno dei bambini, solo senza un futuro a lungo termine e un’eventuale possibilità di riscatto. Con una speranza di vita media di 80,8 anni per gli uomini e di 85,2 per le donne, si può dire che le opportunità di costruire un percorso di vita soddisfacente per queste persone si giocano nel giro di qualche anno, anche quando le condizioni di salute consentono di condurre una vita attiva. Un tema scomodo da guardare per una società disabituata al concetto di limite, di fine, nella quale dirigenti, governanti e decisori sono spesso più vicini a questi traguardi che all’età da lavoro. Eppure, forse proprio per una rimozione – volontaria o involontaria – nella “testa” del Paese, la questione anziani è considerata soltanto da un punto di vista gestionale: l’anziano è qualcosa di cui occuparsi, oggetto passivo di scelte altri, altrimenti non è anziano, non rientra nella categoria. Arrivato a ottant’anni devi decidere quindi: o sposi, potendotelo permettere, la filosofia della negazione, oppure rischi di ritrovarti privato del tuo potere decisionale, regredendo, nel migliore dei casi, alla condizione di bambino da accompagnare per mano.

Guardare alla finitezza è un problema per questa società, perché impone un termine al perenne slittamento in avanti delle grandi (e piccole) questioni dell’ordinario, basti pensare al concetto di “giovane” nel nostro mercato del lavoro. Le domande di senso non poste consentono, a un certo modello di “sviluppo”, di andare avanti. Per il resto ci sarà tempo, perché la vecchiaia non ci riguarda e, proprio per questo, vogliamo “risolverla” nel più pratico dei modi. Il rifiuto individuale, il mito personale dell’eterna giovinezza e delle infinite possibilità replicabili, delle decisioni che possono attendere, si sposano perfettamente con il modello produttivo in cui viviamo immersi: fino a quando sei nelle condizioni di reggere all’interno di un sistema pensato per l’efficientismo nessun problema, poi diventi tu il problema.

Se non ce ne fossimo già accorti prima, la pandemia – e le reazioni al dramma delle morti di massa di una generazione fragile dal punto di vista sanitario – ha scoperchiato il vaso di Pandora.

(http://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=90632)

Da una parte le dichiarazioni di chi ha ritenuto praticabile, almeno come proposta, la clausura coatta di tutta la popolazione anziana del Paese, per permettere alla vita produttiva di proseguire senza il senso di colpa del contagio mortale sulla coscienza, dall’altra le più recenti proposte di coloro che riterrebbero più sensato investire nelle vaccinazioni della popolazione “attiva”. E non produce. Anche le politiche di contenimento sanitario animate dalle migliori intenzioni hanno inquadrato nella narrazione – che, si sa, è tutto oggi – l’anziano come oggetto del discorso e non soggetto agente. Nel periodo direttamente precedente le feste il dibattito pubblico è stato animato da un grande tema “nonni a tavola per Natale o soli a casa”. La decisione spettava ai figli, ai nipoti: ci si appellava alla responsabilità individuale delle famiglie affinché mettessero il meno possibile a contatto i “loro” anziani con il resto del mondo. La parola agli anziani non è mai stata data, nessuno si è mai rivolto, in corso di dibattito, a loro per chiedere se, effettivamente, desideravano, stanti le premesse, starsene a casa senza particolari rischi o correre un rischio pur di non passare il Natale, magari l’ultimo, da soli. L’implicita premessa è l’incompetenza che l’anziano maturerebbe nel fare scelte. Lo stesso anziano che, per retorica, definiamo come saggio e portatore di esperienze importanti e che trattiamo con la stessa condiscendenza di un bambino che, di contro, di esperienza non ne ha nessuna e proprio per questo va indirizzato. E veniamo a una verità scomoda da guardare: chiudere l’anziano in casa, limitare la sua attività per molti non ha rappresentato un sacrificio condiviso, ma la messa in sicurezza del proprio quotidiano, e più in generale la salvaguardia, per quanto possibile, del sistema. L’anziano in sicurezza per poter continuare a lavorare, a gestire, per quanto possibile, le proprie relazioni sociali, il proprio mondo “fuori”. Si è discusso a lungo sulle pesanti privazioni che le strategie di contenimento pandemico hanno imposto a bambini e adolescenti: molto poco si è detto di chi ha subito le stesse limitazioni, ma con minori aspettative per il domani.

Non è tuttavia una novità dell’epoca pandemica: raramente i discorsi legati alla gestione del welfare per la cosiddetta terza età partono dal presupposto della libera scelta. Ancor più raramente assistiamo ad una condivisione del progetto di vita, dello scenario possibile per il futuro a medio termine con i soggetti interessati. I progetti hanno sempre un oggetto di intervento, tempi e spazi vengono determinati in modo da coprire bisogni di libertà (attenzione, non in termini egoistici, ma di necessaria gestione del tempo) di chi ha “in carico” la persona. Il tempo dell’anziano è poco, ma spesso di troppo, perché non adeguato agli standard di performance del resto della popolazione.

Riconoscere all’anziano il diritto di scelta imporrebbe cambiamenti radicali nel sistema attuale, volti non tanto a fornire servizi, ma a consentire libertà di azione a chi, a pieno titolo, ne ha il diritto. Se domattina ci alzassimo e qualcuno decidesse per noi che dobbiamo frequentare un determinato spazio, in un determinato orario, magari proprio quello in cui noi vorremmo restare a casa, a fare altre cose, come la prenderemmo? Se ci venissero imposte scelte, dal banale divieto di uscire durante una giornata di pioggia al bicchiere di vino in più negato, quale sarebbe la nostra reazione? E se ci dicessero che il mondo che conosciamo, che abbiamo faticosamente costruito non può più essere nostro, perché non si concilia con il bisogno di serenità di qualcun altro, con la sua urgenza di “non avere anche quel pensiero”?

Forse, con minor retorica e maggior desiderio di metterci in discussione, come società, potremmo fermarci e accettare le scelte di chi ha l’età per farle, smettendo di negare la vecchiaia attraverso l’eterna giovinezza o il mito del vecchio bambino.

TAG: anziani, Covid, Moratti, produzione, terza età, Toti, Vaccini
CAT: costumi sociali, Qualità della vita

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