Sorelle, ma è davvero il catcalling il nostro problema?

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26 Aprile 2021

A leggere alcuni interventi delle scorse settimane in merito all’annosa questione catcalling il dubbio viene: stiamo affrontando la questione nella maniera corretta?

La pratica del catcalling – ovvero la molestia verbale che avviene per strada all’indirizzo di una donna (che si tratti di un fischio, di una frase sconcia o di un complimento esplicito) – è finita sotto i riflettori nelle scorse settimane grazie alla denuncia e presa di posizione di alcune personalità dello spettacolo, stanche di sentirsi minacciate durante semplici attività quotidiane come una corsa, una passeggiata, al rientro a casa dopo il lavoro. A queste denunce, che hanno avuto il sicuro merito di portare l’attenzione su un fenomeno spesso banalizzato e liquidato come un semplice complimento “eccessivo”, sono seguiti articoli e prese di posizione, anche da parte del mondo degli influencer, che hanno spesso paragonato la questione a una violenza sessuale. Intendiamoci, ogni atto di prevaricazione nei confronti di qualcuno può essere considerato come violenza e sicuramente esistono diversi grandi di percezione emotiva da parte delle vittime di catcalling. Ciò che emerge tuttavia da molti di questi articoli è la visione della donna come “sesso debole”, figura fragile che va protetta da possibili aggressioni esterne e tutelata come categoria a parte. Una visione a suo modo paternalistica e novecentesca, che trasforma la donna da soggetto a oggetto di tutela e non guarda a una radicale trasformazione della società, necessaria per la piena liberà di scelta ed espressione degli individui a prescindere dal genere, ma a “mettere una pezza” a uno status quo ormai consolidato.

Il problema è il catcalling o il senso di insicurezza che pervade, in ogni momento, la vita delle donne e che impone loro il silenzio e un approccio passivo e rassegnato nei confronti di ciò che ritengono sgradito o – peggio – molesto? Non rischiamo di banalizzare la violenza equiparando un fischio per strada a un’aggressione?

A pochi giorni da questo dibattito Beppe Grillo, difendendo suo figlio da quella che lui ritiene un’ingiusta accusa di stupro e dalla persecuzione mediatica che, sempre secondo lui, avrebbe subito (forse dimentico delle tante occasioni in cui lui si è posto in prima persona come promotore della pubblica “forca”), porta avanti come prova della sua ipotetica innocenza un filmato e una serie di fatti che dovrebbero far propendere per un atto consensuale poi “ritrattato” per motivi di ricatto. Oscuri fra l’altro. A supporto della tesi dell’innocenza sarebbe il fatto che la vittima, il giorno dopo la violenza, avrebbe trascorso una giornata normale, in compagnia degli amici, denunciando il fatto solo molto tempo dopo. Fortunatamente di fronte a un discorso privo di fondamento e di approfondimento come questo, dettato solo dal bisogno di difesa a tutti costi di un padre nei confronti del figlio, si sono levati numerosi scudi. Vivere una giornata in apparenza normale non significa non aver subito violenza. Denunciare un fatto a distanza non significa che il fatto non sussiste.

Ma perché esiste ancora la possibilità di mettere in discussione, con deboli osservazioni di questo tipo, una denuncia di questo genere? Perché le donne faticano ancora a denunciare?

Forse la risposta sta proprio nella reazione scomposta di Grillo – uomo, di potere, over sessanta – e nel fatto che una parte, forse minoritaria, ma sempre presente, dell’opinione pubblica, gli abbia dato ragione. La ragazza ha altri scopi. La ragazza lo fa per interesse. La ragazza si è comportata con leggerezza e ora vuole approfittare della situazione. Questo avviene quotidianamente in molti processi, mediatici e non, per violenza. Si scava nella vita della donna, nel suo privato, nelle sue relazioni, abitudini sessuali, frequentazioni. Com’era vestita? Che reputazione ha in paese? Non si rimane sul fatto, se non forse nelle aule di tribunale, ma si costruisce una narrazione screditante. Così molte donne non denunciano: per non affrontare due volte un calvario. Meglio provare a dimenticare.

Cosa c’entra questo con il dibattito sul catcalling? Se il catcalling è sicuramente un’abitudine sgradevole, fastidiosa e tendenzialmente sessista, la ragione per la quale è ritenuto violenza è il senso di insicurezza e di paura che provoca nelle donne. Questo senso di insicurezza però è dato dal fatto che le donne non si sentono tutelate nel nostro paese, né sul momento, né in caso di atti di violenza. Se una donna fosse davvero libera, si sentisse davvero libera, di rispondere al fischio sgradito per strada, se potesse rispondere in tutta sicurezza a un “Ah bona!” urlato da un’auto, consapevole che quella persona non fermerà la macchina per aggredirla e che la legge, l’opinione pubblica, la cultura dominante è dalla sua parte, allora le cose sarebbero diverse. Viceversa non basta eliminare il fischio per strada per far sentire una donna sicura, perché è il clima in cui viviamo immerse, spesso ipocrita, capace di coprire la sua vera indole discriminante sotto il velo del politicamente corretto, il problema. Pensare che se una nostra foto fatta per uso privato venisse messa in rete, saremmo noi, per l’opinione pubblica, le poco di buono e non chi avesse diffuso quello scatto in modo illecito. Pensare di dover dimostrare, con un passato irreprensibile alle spalle, la nostra innocenza di vittime in caso di violenza.

Ciò che spaventa non è il buio, ma ciò che possiamo trovarci dentro. Non basta insomma aggiungere un lampione nel sottopasso, per stare nella metafora, ma occorre che nessuno si senta autorizzato a utilizzare quello spazio per atti illeciti. La severità della pena, la sua certezza, la maturazione di un atteggiamento culturale per il quale la denuncia di violenza può essere messa in discussione semmai da un’indagine sul fatto, ma non da illazioni sul privato della vittima deve essere l’obiettivo di un percorso di vera emancipazione e parità. Così che una donna per strada si possa sentire sicura sola o in gruppo, vestita secondo i suoi gusti, la mattina come a tarda notte. E che un fischio possa essere letto come un complimento, se lo si desidera, o che a quel fischio possa rispondere con un altrettanto fastidioso insulto, se è ciò che, ancora una volta, si desidera. Senza per questo che la donna debba avere paura, senza bisogno che ci sia qualcuno a difenderla, a sorreggerla, ad accompagnarla.

 

Ph.credits The Vision

TAG: beppe grillo, catcalling, emancipazione femminile, femminismo, paternalismo, Patriarcato, violenza di genere
CAT: costumi sociali, Questioni di genere

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