La menzogna di Dedalo

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23 Dicembre 2021

È Natale, e per Natale ci vuole una strenna, un dono metaforico che sia un augurio, un auspicio ed un monito, così come era in uso tra noi Romani ai tempi di Tito Tazio, che prese quest’abitudine dai Sabini, per la celebrazione della fine dei Saturnalia, che cadeva il 23 dicembre.

Io sono cresciuto alla fine della valle che univa la Via Cornelia (che portava da Roma a Cerveteri attraverso l’Agro Pontino e non lungo il litorale) e la Selva Nera, una foresta di bossi fittissima ed infestata dai banditi, nella quale, secoli più tardi, sono state martirizzate Santa Rufina e Santa Seconda. Sulla terrazza naturale in cui sorgeva casa mia, c’erano prima le torri di guardia degli etruschi di Veio, e Roma la si intuiva da lontano – e la si sapeva dai racconti dei pastori che, partendo dalle nostre capanne, andavano ogni settimana a vendere le loro merci nella capitale. Sono un uomo antico, quindi, e la mia strenna ha, giustamente, una morale pre-cristiana…

Intervista a Dedalo

“È stato uno stupido: gli avevo detto cosa sarebbe successo, se fosse salito più in alto. Non mi ha dato ascolto, questo è il risultato”.

“Non pensa che possa semplicemente aver perso il controllo o l’orientamento? Si trattava del primo tentativo di volo…”

“Non so cosa dirle. L’ho richiamato indietro, ma era già troppo distante. Per come lo conosco, aveva l’incoscienza necessaria per fare ciò che ha fatto, nonostante gli avvertimenti”.

“Se lei davvero lo conosceva così bene, non ha pensato che fosse un po’ rischioso mettergli a disposizione un mezzo con quelle caratteristiche?”

“L’alternativa era morire nel Labirinto. Il volo era la nostra ultima speranza”.

“C’è chi dice che osare il volo sia una trasgressione a un limite posto dagli dèi e che la vostra sia stata una sfida alla pazienza dell’Olimpo. Morire nel Labirinto sarebbe stato forse più dignitoso”.

“Abbiamo volato usando mezzi che gli dèi han[1]no messo a disposizione degli uomini. Con lo stesso criterio dovremmo rinunciare ai cavalli o alle navi!”

“Lei ritiene quindi che l’uomo possa e debba volare”.

“Certamente. A volte la scienza, nel suo sviluppo, produce vittime. Ma il progresso resta inarrestabile. L’uomo volerà, alla faccia dell’ortodossia religiosa”.

“Quindi lei è convinto che il sacrificio di suo figlio sia stato necessario”.

“Un po’ di prudenza in più e noi ci troveremmo a celebrare un trionfo dell’umanità. Spesso cautela e pazienza tracciano il confine fra il successo e l’insuccesso”.

“È un vero peccato non poter approfondire oltre questo entusiasmante argomento. Ringraziamo Dedalo per aver parlato con noi, nonostante il grave lutto che ha colpito la sua famiglia, e auguriamo ai nostri telespettatori una buona serata. Pubblicità”.

Sicché Dedalo venne assolto. Ma la gente continuò a morire nel Labirinto, poiché il segreto delle sue ali, alla sua morte, venne sepolto con lui. Nessuno si accorse della menzogna di Dedalo, nessuno ci pensò più. Tutti accettarono la sua versione dei fatti. Perché volare, perché proprio fuori dal Labirinto, e quale prezzo sia lecito pagare per questo, se lo sono chiesto in pochi. Questa è la storia di uno di loro.

Menzogna e illusione

Er Pantera me viene vicino strisciando dietro un bidone della spazzatura. «Staranno qui da un momento all’altro – me dice a bassa voce – Sei pronto?» Controllo l’impugnatura der coltello: «So’ pronto», je dico. «Bene. Sta in campana», e ruzzola verso gli altri.

Ho paura, ma è normale; quanno sei lì vorresti sempre stà artrove, fino a che nun comincia. Ciò di fronte l’androne de uno dei palazzi prefabbricati dell’anello der Laurentino 38, da qui posso controllà solo ‘na parte della lunga curva, ma armeno ce sta er vantaggio d’esse quasi invisibbili, dietro le siepi e ner buio.

‘Na macchina illumina er muso der palazzo de fronte. Nun se move nessuno, nun so’ i nostri.

Eccoli, adesso! Se sente un motore, niente luci. Sanno che stamo qui ad aspettalli. Pum! Un botto. La luce, porcaccia… Devo da stà fermo, mo’ me passeno davanti correnno… Je dò ‘na cortellata quanno passeno. Manco me vedono… Ma se lo liscio…

‘Orco, eccolo, eccolo perdio! «Fermate cojone, so’ io!». «Ma che succede?». “So’ i caramba, datte, vattene!». Pum pum pum! Tonino va lungo pe’ tera, io me la squajo dalla parte dell’androne. ‘Sto cazzo de portone è chiuso…

Hiiii, una donna strilla! Se accennono le luci, via de qua, verso er cortile. Là er muro è più basso… «Fermo dove sei! Mani in alto!».

* * *

Sto proprio nella merda, nun se sa’ come un caramba ci ha rimesso la pelle e io so’ l’unico che hanno acchiappato. M’hanno ‘ntronato de botte pe’ vendicasse e allora ho fatto finta de esse svenuto; così m’hanno portato in infermeria e m’hanno dato ‘na pasticca e un po’ de alcol dove me so’tajiato. Sì, sto proprio nella merda.

Una guardia me dice che posso telefonà a quarcuno. Alzo le spalle, lui pure. E me mettono in cella, per fortuna da solo. Poi arriva uno e me chiede come me chiamo, e tutto er resto, e me dice de stà calmo, che va tutto bene. Così m’addormento, che sto a pezzi. Me fa male la faccia pe’ le botte. Nun ciò più er cortello.

* * *

La prigione è proprio un casino, ma lo sapemo tutti. Ciò l’avvocato, ma tanto m’hanno fregato, nun ce se po’ fà gnente, e m’hanno già detto che m’hanno preso cor cortello pieno der sangue del caramba, così tutto è chiaro. Dunque viene uno e me dice: «Fammi i nomi degli altri». Bravo, così si esco me sistemano bene bene, ma magari pure qui in galera. Allora quello: «Come ti pare, allora ti fai tutta la vita qua dentro». Io ho provato a daje na ‘capocciata, ma ce stavano due de dietro che me tenevano, e così se nun m’erano bastate ne ho prese un altro po’. Mo’ comunque ho capito.

* * *

Oggi è stata ‘na giornata piena de incontri: ben tre persone. Prima uno della prigione che me dice: «Fai er bravo e invece dell’ergastolo te fai una quindicina d’anni e te ne vai, e magari te famo pure fà un po’ de libera uscita. Fai lo stronzo e sei fregato. Stamo tutti nella stessa barca, dobbiamo cooperare, dacci una mano e tutto andrà bene». Poi viene ‘n’antro e me fa: «Vieni con me».

Arriviamo nella cella de uno che se vede che è importante e me soride: «Sei drogato?». «No, la robba me fa schifo». «Sei checca?». «Me fa pure più schifo». «Fa’ quello che te si dice e nun dovrai diventà né l’uno né l’artro. Ogni volta che ciài un po’ di sordi che t’avanzano vieni qui, che dividemo». Poi m’accompagneno nella mia cella, insieme ad artri tre. Se guardamo, ciao sono questo, ciao sono quello, là sta la tua branda, nun fa’ casino, eh?

Poi ariva er prete. E sbotto: «Eh no, er prete no! Sto già abbastanza nella merda pe’ sentì pure uno che porta sfiga e me fa la predica!». Lui se ne va, ma dice che se lo chiamerò verrà subito. Bella prospettiva! Pensa che fico…

* * *

Divento matto, se non me fanno uscì divento matto. Le giornate nun passano mai, come ar militare, e poi so’ sempre stanco. Qui si bucano tutti, che dicono che stai meglio, ma me fà troppo schifo metteme un ago nella pelle, ah. Allora sono andato da quello importante e gli ho detto: «Che devo fà pe’ uscì de qua?». E lui: «Viè stasera che ne parlamo, se davero ciài bisogno sistemamo».

Mentre ce vado me guardeno tutti strano; allora capisco che quarcosa nun va, ma tanto sto già in fonno alla merda. «Qua le donne nun ce le avemo e tu sei carino, se vede che sei nato in città, hai la pelle bella bianca». «No, nun ce sto». «Peccato. Vedrai che ne riparlamo». Il giorno dopo vado dalle guardie e je chiedo che devo fà pe’ uscì solo ‘na mattina; vojono dei soldi, gli faccio che va bene e glieli dò: «Domenica mattina presentati al cancello, è tutto occhei».

«Allora te sei messo d’accordo co’ li padroni, eh? Ma bravo!» «Vojo solo uscì pe’ quarche ora, sto a diventà matto qui dentro». «Bravo, bravo… Però a me m’avevi detto che nun era poi così importante. Ma nun fa gnente, poi vedremo…».

Mi presento al cancello. Sembra quasi che so’ invisibbile. Quello che ho pagato me strizza l’occhio e me fa un cenno con la mano. Allora esco. E quello fischia: «Sta scappando! Prendetelo!». Ma io mi fermo subito, sto a tornà indietro… Quando mi risveglio so’ in infermeria. Allora torno nella stanza del tipo importante e je dico: «Vabbè, ciài raggione tu, se mettemo d’accordo».

* * *

Dopo la prima volta nun lo senti più tanto e non esce più sangue. Nessuno tocca la roba mia, adesso. E so’ sempre stordito, così il tempo passa e io non me ne accorgo.

«Voglio annà via, dimmi come se fà ad annassene via». «Non ce vòle molto: tu fài un po’ de nomi, io ce metto ‘na parolina e te rifanno il processo». «Così quanno esco m’ammazzeno!». «Tu devi fà i nomi che te dico io. Poi obbedisci sempre all’avvocato e vedrai che va tutto bene. Me dispiace che te perdo, ma la parola è la parola».

* * *

È primavera e me sento come un bambino, fuori da quello schifo. E ce sta Nadia. M’hanno trovato un lavoro: porto le schedine da Napoli a Roma, poi riporto i soldi indietro con le puntate. Ho cominciato con i bar e dopo un po’ m’hanno messo a un giro grande, così mo’ ciò pure quarche sordo. Me so’ comprato ‘na Polo, poi ho trovato la casa popolare a Tor Vergata, lontano più che posso dar Laurentino 38, pe’ nun incontrà nessuno. Me so’ messo su benino.

Ar bar ce sta ‘na comitiva co’ le ragazze, e cor fatto che ciò la Polo e l’appartamento vado a mille. Così un giorno trovo Nadia che me fa: «Che, me ce porti a scuola?». E invece finimo a pomicià ai giardinetti e la sera dopo me la porto a casa. «Ti piaccio?». Un casino, me piaci, e nun te mollo più. È proprio tutto un sogno, se pensi a ‘ndò stavo solo qualche settimana fa.

Lei me dice sempre che faremo questo, faremo quello, e io je prometto tutto, che me pare che se merita er monno intero. Allora siamo andati ar concerto de Venditti e lei m’ha detto: «Vedi? È primavera, la stagione più bella che ce sta, e io te amo. E vojo avè questo tuo figlio». Che poi è ‘na bambina, ma per me va bene. L’abbiamo portata dal prete, l’ha battezzata e ci ha sposati, e sono venute a stà tutt’e due da me. Dalla prigione m’è arrivato un regalo e mi sono venute le lacrime all’occhi. C’era un biglietto: I veri amici non si dimenticano mai. Ora sei veramente un uomo, impara a restare libero!

* * *

Libero. E i genitori de Nadia, e la pupa (povera stella), e come va er lavoro, e non ce so’ abbastanza sordi, e sei troppo vecchio pe’ ridutte a giocà a pallone coi regazzetti, e non vojo che esci la sera, e nun mesento tanto bene, e oggi vengono Nice e la sorella coi cartamodelli che se nun me posso comprà un vestito almeno se lo famo…

Sul lavoro devo stà in campana, gira la voce che la pula acchiappa tutti quelli colle schedine in mano e je fà dì ‘ndò l’hanno giocate, e nun ce sta nessuno de cui me posso fidà pe’ fà la corsa a Napoli o pe’ fà er giro dei clienti. Pare che quelli che ancora lavorano al bar li hanno presi tutti, anche perché se sanno i tutti i nomi… In più, quest’inverno ciò ‘n’influenza der cavolo che nun me lascia mai, ciò sempre la febbre.

E Nadia giù colla sua solita rottura de cojoni che fumo troppo, che sto troppo in giro e tutte ‘ste solite cose… Ma la pupa è un angelo, ‘na gemma, ‘no splendore, e mi pare che torno a casa solo per vedere lei, e quando sto per strada penso a tutte le cose che je posso regalà se me metto qualche sordo da parte, de nascosto da Nadia e da li parenti…

* * *

So’ stato dal dottore, quattro volte. E ho fatto tutte le analisi. E sto davvero dritto dritto nella merda. Nella merda come nun ce so’ stato mai. «Lei si droga, è omosessuale, o ha rapporti extraconiugali?». «Nossignore, io so’ un padre de famija». «Beh, in qualche modo lei l’ha preso. Non ha davvero nessuna idea in proposito?».

L’idea ce l’ho chiara, ma mica la vengo a dì a te… «Da quanto tempo ce l’ho?». «Ha un’incubazione di anni… Quattro, cinque, forse più; chi può saperlo?». «È lei er dottore, no?». «Ragazzo mio, ti devi fare forza». «Pensa che l’ho attaccato pure a mi’ moije?». «Mi deve portare anche la bambina. Bisogna vedere se l’ha preso anche lei attraverso il sangue della madre».

Allora sono andato dal prete. «Devi metterti in pace con Dio e accettare con serenità la sua volontà». «È lui che vuole così?». «Devi avere fede. Lui non si dimentica mai di nessuno. Non si è dimenticato di te. Vedrai, avrà un suo disegno». «Ma la pupa…». «Dio dà e Dio prende».

Allora so’ passato alla prigione e m’hanno dato quello che me serve. «Sei sicuro che è la cosa giusta?». «So’ libero, hai detto. Vojo finì libero, quanno lo vojo io». Sono tornato a casa e ho sparato alla pupa e a Nadia, senza spiegazioni, perché come facevo a dì dove me l’ero preso? E ho aspettato pe’ esse sicuro che erano morte, e adesso me sparo anch’io, perché chiuso in un’altra infermeria finché il male non mi porta via non ce la posso fare, divento matto. Addio.

La menzogna di Dedalo

Il Labirinto è peggio della morte: è l’umiliazione di essere disperso, irrintracciabile, dimenticato. Uscire dal Labirinto, vederlo dall’alto, capire che altro non era se non la riproduzione in piccolo di un Labirinto più grande e più complesso, fu un tutt’uno. Allora la prima menzogna Dedalo la disse al figlio, e fu una menzogna piccola, perché non riuscì a ottenere lo scopo: quello di convincere Icaro che, una volta usciti dalla trappola visibile tutto sarebbe stato risolto. Icaro scoprì la bugia e decise che era meglio rischiare la morte che arrendersi.

La seconda menzogna Dedalo dovette dirla a sé stesso: l’importante non è la fuga, ma il principio del volo. Non risolve il Problema, ma può contribuire a rinviarlo o a farcelo vedere sotto un altro aspetto, magari più rassicurante. Ma poiché Dedalo era mortale e intelligente, sappiamo che di fronte all’ultima Parca avrà tremato come tutti, e gridato, e rimpianto la propria vigliaccheria ormai senza alibi.

La terza menzogna fu quella propinata al mondo, e fu la più insignificante, perché nessuno si interessa a te. Se vivi intensamente suggono la tua linfa. Se soffri si beano della noia. E tu non sei diverso dagli altri. Ti aspetterai ora che io dica: sì, anch’io, certo, è chiaro…

Ma non mi avrete così facilmente. Lo ammetto, ci sono dei giorni in cui la menzogna di Dedalo mi pare l’unico modo per sopravvivere. Sono i giorni in cui non ho ottenuto da me stesso ciò che mi sarei aspettato. Ma questa è la trave. L’importante, ciò che dimentichiamo tutti, è l’occhio. Certo, neanche lui sopporta la vicinanza del sole, che lo acceca e lo confonde; ma io ho ancora voglia di veder meglio e coraggio per tentare di farlo.

E così volerò più in alto, più in alto delle mie paure. Quando cadrò non venite. Se mi avete voluto bene, come me ne voglio io, penserete che sia stata la soluzione migliore. Allora non perdete tempo: saltate dall’orlo del tetto prima che i troppi anni lo facciano per voi. Se mi avete voluto male quanto me ne voglio io, venite in massa. Ancora una volta non vi deluderò.

TAG:
CAT: costumi sociali, Roma

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