La TV generalista tedesca ha lanciato con successo alcuni format che mi erano sconosciuti: reality shows sulle esercitazioni militari che inneggiano alla guerra (sottotitolo: noi proteggiamo la Germania); oppure che seguono il lavoro della polizia stradale che mette multe agli automobilisti; oppure che mostrano maramaldi che truffano i turisti; e, dulcis in fundo, una trasmissione settimanale che mostra camioniste in viaggio. Null’altro. Solo donne, non necessariamente piacenti, ma spesso sboccate e gozzovigliose, che guidano un camion da 50 tonnellate.
Negli anni 90 Silvio Berlusconi e Leo Kirch hanno insegnato a noi europei che la programmazione di un canale televisivo è costruita in modo da contenere la massima percentuale di pubblicità possibile – seguendo i modelli già in auge negli Stati Uniti ed in Australia. Inizialmente, questo ha comportato una lotta sui diritti televisivi dei film e degli avvenimenti sportivi principali.
Con il passare degli anni, essendo la torta immensa, e la tecnologia migliore, pur rimanendo intatto il principio, sono cambiate le strategie. La possibilità, tutta europea, di ottenere licenze per decine di canali, tutti trasmessi dalla stessa azienda, ha permesso anche di inseguire le nicchie di spettatori: dapprima con la sessualizzazione o la sensazionalizzazione dei talk-shows, dappoi con canali specializzati in sport meno popolari, violenza, fondamentalismo religioso, oppure semplice pubblicità, 24 ore su 24.
Questo ha cambiato il modo di “vendere” storie. Essendo fondamentale la fidelizzazione, dapprima sono arrivate (dal Sudamerica) le soap opera, poi le situation comedies, le serie televisive capaci di tenere avvinti davanti allo schermo milioni di persone, affascinate ed affettivamente legate ai ragazzi di “Friends”, alle donne di “Sex and the City”, alla fantascienza di “Star Trek”, ai baffoni di “Magnum P.I.” e via di seguito, in un oceano di produzioni di grande o nessun successo, ma tutte tese a convincere gli spettatori a guardare la quantità maggiore possibile di spot pubblicitari.
Gli Americani, che sono avanti a noi, hanno reso gli spot un’arte, e durante il Superbowl (la finale del campionato di football) fanno a gara per presentare spot esilaranti, costosissimi, rutilanti di persone famose. È diventata una prassi la pubblicità occulta nei film e nelle serie, e poi sono arrivati i reality shows – ovvero trasmissioni in cui persone evidentemente non professioniste si prestano a figuracce indimenticabili in quiz a premi sempre più idioti, a trascorrere settimane chiuse in gabbia insieme ad altri pari, oppure farsi spedire in un atollo sperduto a mangiare bacarozzi e nuotare tra i serpenti.
Punto e a capo. Non sono un moralista, e credo che questa tendenza sia inarrestabile – e che sia impossibile porre un limite alla violenza sanguinaria, che è la cosa che più mi disturba, visto che la rappresentazione ossessiva della carnalità ha come unico effetto la diminuzione della voglia di accoppiarsi, e di questo non mi frega nulla. Credo che sia lo stesso effetto del calcio e del cucinare in TV: ne vedi talmente tanto, da non volerne più praticare.
Appartengo a coloro cresciuti non a donne e champagne, ma a pippe e gazzose. Sono tra coloro che si commuovono per una storia d’amore a lieto fine, e sono grato a questa nuova TV che ha trovato spazio e soldi per produzioni alternative su argomenti veramente difficili: il crimine organizzato, il neocolonialismo, la brutalità maschile, le truffe commerciali. Mi preoccupa però che, dopo anni in cui la TV anticipava l’imbarbarimento del pubblico, ora sia nuovamente costretta ad inseguirlo – come dimostra l’esistenza di un canale come Retequattro, che con i suoi moderatori isterici e squittanti incita alla rabbia ed alla ferocia persone di bassa cultura e di mezza età. La divinizzazione della vecchia cantata da Fabrizio De André, che denuncia Boccadirosa ai Carabinieri, sentendosi come Gesù nel tempio, perché non può più dare il cattivo esempio.
Questo sviluppo mi fa paura, perché avviene parallelamente alla distruzione della parvenza di democrazia negli Stati Uniti, che è stata per decenni un simbolo per noi sconfitti dalla guerra e dal fascismo, e perché avviene contemporaneamente all’esplosione di una guerra ai nostri confini, ad una crisi ecologica, industriale, economica e sociale senza precedenti, ad un inverno delle coscienze che si preannuncia lungo e rigido. La trasmissione della glorificazione dell’esercito in una Germania che, dopo il 1945, ha sofferto per anni il senso di colpa collettivo per l’Olocausto, è quella che più mi inquieta. Ma pare che sia anche quella che attira il maggior numero di spettatori e di acquirenti di spazi pubblicitari.
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