Bagheria, quel coraggio di ribellarsi che Gaetano trovò da solo 13 anni fa

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2 Novembre 2015

L’atto di coraggio dei trentasei imprenditori che hanno denunciato ventidue mafiosi di Bagheria ha un precedente in Calabria. La differenza è che a Palmi tredici anni fa, Gaetano Saffioti, che molti ormai conoscono per le sue apparizioni in televisione, intraprese la battaglia da solo, consapevole dei rischi ai quali andava incontro. Chi scrive ebbe la fortuna di conoscerlo e intervistarlo nella sua casa in Calabria nel 2010 e incontrarlo in seguito in diverse occasioni a convegni e incontri antimafia ai quali Gaetano, pur con le oggettive difficoltà logistiche con le le quali è costretto a fare i conti per il suo status di testimone di giustizia, non rinuncia mai per portare, soprattutto ai giovani, la sua testimonianza.

Quella intervista, alla luce dei fatti di oggi, rimane d’attualità anche a cinque anni di distanza.  Ve la ripropongo.

L’unico attestato di solidarietà da una persona del posto gli è arrivato per lettera da Giuseppe Rossi, che, apprezzando il suo gesto, lo invitava ad andare avanti nella sua battaglia di denuncia delle cosche. All’anagrafe di Palmi, però, non esiste alcun Giuseppe Rossi. E, d’altra parte, lo stesso mittente ammetteva di aver utilizzato un nome falso. Per paura. La paura di essere classificato come ammiratore di un “infame”.
«Questo episodio», racconta Gaetano Saffioti, 48 anni, imprenditore calabrese che otto anni fa decise di dire basta ad anni di estorsioni, soprusi e vessazioni, dando il via con le sue testimonianze all’operazione “Tallone d’Achille” che portò in carcere quarantotto affiliati alla ‘ndrangheta, «rende l’idea di quello è diventata la mia vita nel momento in cui ho deciso di denunciare: intorno a me il vuoto».
Saffioti, titolare di un’impresa di calcestruzzi a Palmi, oggi l’unico testimone di giustizia in Italia a non aver abbandonato la sua terra e a essersi rifiutato di trovare riparo dietro una nuova identità, rifacendosi una vita lontano dalla Calabria, vive un’esistenza blindata. E con lui sua moglie e suo figlio, sorvegliati ventiquattro ore su ventiquattro da una scorta della Guardia di finanza, arroccati in una casa bunker costruita accanto all’azienda, protetta da filo spinato e sorvegliata da una dozzina di telecamere che scrutano la statale che da Palmi porta a Gioia Tauro.
«Ero stanco di pagare una tassa che io ho ribattezzato Ivam, imposta aggiunta sul valore mafioso», dice l’imprenditore palmese, secondo di sei figli, che ha cominciato a lavorare giovanissimo nel frantoio oleario del padre, morto quando lui aveva quattordici anni.
«Ho creato la mia azienda nel 1981 e, in vent’anni, ho calcolato di aver versato alle cosche qualcosa come due miliardi delle vecchie lire”, racconta, mentre mostra il filmato che lo riprende mentre versa il pizzo all’emissario di una cosca. E’ stato proprio grazie alle riprese delle telecamere che Saffioti aveva installato in azienda, e definite dai pubblici ministeri Vincenzo D’Onofrio e Roberto Pennisi “una miniera inesauribile di informazioni”, che sono finiti dietro le sbarre affiliati delle cosche Bellocco, Gallico, Piromalli, Fondacaro e D’Agostino.
«Nel giro di ventiquattr’ore, però, mi ritrovai dall’avere sessanta dipendenti, a lavorare con sole cinque persone», racconta Saffioti, che oggi dà lavoro a Palmi a venti persone, e ha uno stabilimento a Carrara. La vendetta della ‘ndrangheta non tardò ad arrivare: nel sito toscano vennero incendiati sei escavatori, mentre in Calabria un suo dipendente sotto la minaccia di una pistola fu costretto da un uomo, mascherato con un passamontagna, a dare fuoco al camion che guidava.
Con un sorriso amaro, l’immancabile sigaro al lato della bocca, racconta anche di un suo altro operaio: «Un mio dipendente che si era licenziato, tempo dopo venne a trovarmi in azienda, ma stavolta per riscuotere il pizzo come emissario di una cosca. Allibito, non per la richiesta, ma per la scelta di vita che aveva compiuto, gli chiesi il perché. Mi rispose che la sua vita era cambiata in meglio: niente più sveglia alle cinque per lavorare sui cantieri e, soprattutto, la gente finalmente gli portava “rispetto”». Quel “rispetto” delle persone del luogo, che Saffioti consapevolmente ha perso nel momento in cui ha deciso di diventare testimone di giustizia: «Sono scomparsi tutti, a cominciare dagli amici. Ma anche i politici che prima venivano a chiedermi il voto: la “peste” della legalità riesce perfino a tener lontani gli organizzatori di feste patronali che non si sono più visti nella mia azienda nel consueto giro di richiesta dell’obolo per i festeggiamenti. E nessuna richiesta di sponsorizzazione, nonostante in passato sia stato presidente e sponsor della squadra di calcio locale. Non vado più nemmeno a prendere il caffè nei bar, perché oltre al disagio di dover mobilitare la scorta per ogni mio spostamento, evito a chi mi conosce l’imbarazzo di dovermi salutare, perché so che poi le cosche gli chiederanno conto anche di questo».
«Mio figlio», prosegue l’imprenditore antimafia, «è sotto scorta da quando aveva dodici anni, oggi che ne ha venti e studia ingegneria all’Università di Cosenza, ha capito e condiviso la mia scelta e, nonostante l’impossibilità di condurre una vita normale, ci scherza sopra: “Papà, mi dice, almeno il problema di dove parcheggiare l’auto non l’abbiamo”».
L’impossibilità di un’esistenza normale traspare in tutta la sua inconcepibile angoscia nel momento in cui il fotografo di Visto invita Saffioti a posare dinanzi al cancello del suo stabilimento: «Mi dispiace, ma sulla strada non vengo, è meglio che non esca», dice l’imprenditore, nonostante la presenza a pochi metri degli angeli custodi della scorta.
La sua, però, non è codardia. Anzi, fu proprio sentendosi ferito da una frase (“Siete dei codardi”), pronunciata dal pm Pennisi, sostituto procuratore distrettuale antimafia, nella primavera 2001, dopo l’ennesima indagine nel territorio della Piana di Gioia Tauro, infestata dalle più temibili cosche della ‘ndrangheta reggina, e rivolta agli imprenditori taglieggiati che ancora una volta negavano di pagare il pizzo, che Saffioti bussò alla porta dell’ufficio del magistrato: «Buongiorno, dottor Pennisi, mi chiamo Gaetano Saffioti, ho un’impresa di calcestruzzi a Palmi e non sono un codardo! Lei l’altro giorno alla televisione mi ha offeso!», disse, e l’episodio ora è riportato anche nel capitolo di una tesi di laurea che una studentessa romana di psicologia ha dedicato ai testimoni di giustizia.
«Io so tutto degli affari della mafia nel territorio della Piana, e lo so per esperienza diretta. Potrei e vorrei parlarne, ma lei che garanzie mi dà? Chi mi dice che tutto non vada a finire in una bolla di sapone, perché in mezzo ci sono persone importanti? E che io non faccia la fine di quei pochi che finora a Reggio Calabria hanno denunciato?», chiese l’imprenditore palmese. La garanzia fu una stretta di mano che il magistrato gli porse. Saffioti pose una sola condizione: di poter rimanere a lavorare a Palmi. Da allora, però, la sua azienda non si è mai più aggiudicata un appalto per i lavori sulla Salerno-Reggio Calabria, arrivando quasi sempre seconda.

(Pubblicato sul settimanale VISTO gennaio 2010)

TAG: Bagheria, Gaetano Saffioti, legalità, pizzo
CAT: Criminalità

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