Il giorno in cui Messina Denaro perse la sua guerra

16 Gennaio 2023

Il boss mafioso Matteo Messina Denaro è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza. L’inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano, cuore della provincia di Trapani, è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido.
Giacomo Di Girolamo, giornalista e scrittore, ha pubblicato di recente per Zolfo Editore, Matteo va alla guerra, libro che racconta la stagione delle stragi da una prospettiva insolita, quella dei boss, a partire proprio da Messina Denaro. Per gentile concessione dell’editore ne pubblichiamo un estratto, oggi particolarmente significativo.

Dopo

È finita così la nostra guerra, è sfumata piano, nell’indifferenza – noi che avevamo messo a ferro e fuoco l’Italia e la Sicilia –, e in un giorno qualunque vi siete accorti che nel frattempo avevamo cambiato pelle. Poi, distratti, a noi non avete pensato più. Gloria all’oblio che sempre trionfa.
Per quel che vale, siamo arrivati al termine di queste nostre memorie, disordinate e confuse. Vi avevamo promesso esattezza, ma anche quello era un inganno. Eppure, in ogni disordine c’è un ordine interno e misterioso, e noi abbiamo capito che vogliamo essere sfuggenti, non addomesticati, senza scopo. Essere, ci basta, così come si è. Ed è per questo che siamo ancora più sovversivi di prima.

Non sappiamo con precisione quando accadde. Matteo aveva cominciato a dormire in posti sempre più diversi e lontani, a prendere precauzioni sempre più accorte.
E fu un giorno di maggio del 1993 che lo andammo a cercare, nei posti che sapevamo, e non lo trovammo. Né al baglio tra gli olivi secolari dei nostri giochi di infanzia, né alla casa sul mare. Non c’era nel magazzino abbandonato, e neanche nell’albergo sulla costa dove aveva sempre una stanza per sé. Non era a casa dei parenti. Non c’era più. Ci sentimmo come gli apostoli in quella domenica di Resurrezione, quando cercano il Cristo e trovano solo il pietrone spostato, le bende a terra, e nulla più.
Anche Matteo aveva compiuto un miracolo. Era risorto dalle ceneri di Cosa nostra. Lui era risorto. E, come Cristo, si era dissolto. Lasciò questa terra come un dio del rock.
Perché, se ci consentite la morale, prima del congedo, va detto questo. Va detto cioè che la guerra – ogni guerra – crea da sempre due categorie di persone: chi sopravvive, e chi no.
Entrambe, comunque, recano ferite.
Matteo, no.

Tempo qualche giorno, e da giugno di quell’anno 1993, il nostro capo è diventato assente anche per lo Stato, che ha iniziato a cercarlo troppo tardi, ed è pertanto ufficialmente dichiarato latitante. Prima con suo padre, poi da solo. Sempre più solo. Nascosto dalla nostra mamma come in una quarta dimensione. Inizialmente ha circolato con i documenti di Paolo Forte, amico suo e titolare di una stazione di servizio a Castelvetrano. L’unico a sapere dove fosse la sua ombra, Francesco Geraci, che era anche l’unico uomo ad aver visto piangere Matteo, quella volta che, anni prima, si era confidato con lui parlando dello stato di salute di suo padre, lo zio Ciccio.
Quando hanno arrestato Geraci, il 29 giugno 1994, per noi è stato un colpo duro, e non solo per Matteo. Anche per la famiglia dello zio Totuccio. Perché lui poi si è pentito, e oltre a raccontare tutto, ha fatto anche trovare l’oro di Riina che custodiva lui: i lingotti, i gioielli, gli orologi…

Poi, un paio di anni dopo, si è fatto beffe dello Stato, Matteo, ed è diventato padre, durante la latitanza. E c’è stato un periodo, dopo la nascita della figliola, che ogni volta che gli sbirri andavano a casa della compagna per notificare qualche atto, o per una perquisizione, ogni tanto si affacciavano sulla culla grande, con il fiocco rosa, e canticchiavano alla bambina la canzoncina che fa di cu è, ’sta nasca di cu è? e ancora: e tu di cu sì? e lei rispondeva con un gorgheggio che era tutto un pa-paa-paa-pa-pa, e loro avrebbero voluto continuare con il batti le mani che arriva papà, ma era più veloce la mano che li allontanava dalla culla.
Poi, è sfuggito anche al complotto dei servizi segreti per tendergli una trappola, con l’ex sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino, che gli ha scritto delle lettere per attirarlo in un affare e farlo uscire allo scoperto.

Poi, abbiamo assistito alla caduta di tutti: Filippo e Giuseppe Graviano, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Gianni Nicchi, i Lo Piccolo padre e figlio, Bernardo Provenzano. E ancora: Vincenzo Sinacori, Andrea Manciaracina, Vincenzo Virga, i fratelli, la sorella, i parenti, gli zii, i nipoti.
Tranne lui.
Poi lo abbiamo visto prendersi gioco di chi ha cominciato a vedere il suo volto dappertutto, tra ulivi e vigneti, a Trapani, in Sicilia, e oltre.
Poi noi siamo tornati a guadagnare, con il gioco d’azzardo e gli schiavi delle macchinette, con i supermercati e le forniture, con i villaggi turistici, le pale e i pannelli, con i rifiuti, che trasi munnizza e nesci oro, e in tanti altri modi ancora, senza violenza, anzi, con una certa eleganza, costruendo filiere parallele, holding internazionali, cose che mai avremmo sperato nei nostri sogni da ragazzini. Come espressione è antipatica, ma rende l’idea: ci siamo tecnicizzati. Se fosse un fumetto, possiamo dire che siamo passati dal bang! al click!, senza tanti gulp! di qualcuno che ti cerca, senza allarme sociale, senza scruscio.

Poi, ancora, Matteo è riuscito ad attraversare tutte le stagioni, grazie a tanti fiancheggiatori, alcuni anche insospettabili. E con lui ha cambiato forma questa Cosa, questa Cosa nostra, passando da un’organizzazione gerarchica a una specie di rete. E noi cambiamo forma spesso, come lui cambia amanti.

Adesso Matteo lo segnalano dappertutto: in America del Sud, in Olanda, in Grecia, in Australia, a momenti pure al Polo nord. Fanno film, libri, trasmissioni, speciali, alla Rai, su Netflix, su YouTube, alla tv giapponese, prossimamente al cinema. Il suo nome occupa le relazioni delle Procure, i verbali della Commissione antimafia, le dichiarazioni dei nuovi questori.
Lo abbiamo visto riapparire, più volte, come Gesù.
In una delle prime occasioni ci è apparso vestito come un pellegrino. E ci ha detto: meno violenza, innanzitutto. Dobbiamo essere furbi, abili, accorti. Non esponetevi mai in prima persona, non fate colpi di testa. Nessun gesto eclatante. Nessuna dimostrazione di forza. Anche perché, ci ha spiegato, noi siamo forti.
Questa cosa della violenza non era molto chiara ai più malinconici tra noi, e lui ha capito che era il caso di ribadire: solo quando è strettamente necessaria. E ancora: non fatevi trovare con le mani in pasta, pensate, piuttosto, a diventare lievito.

Siate modesti, ha aggiunto. Perché dietro il velo della modestia la potenza nascosta è ancora più inquietante. Perché il potere più è segreto e più è forte. Apparire di meno serve a contare di più. Noi siamo il vero potere, perché, adesso, siamo l’ombra del potere.

E Matteo ci ha spiegato che non saremmo più tornati al mondo di prima, che questo era l’errore che hanno commesso gli altri, quelli che a poco a poco sono caduti vittime della rete degli sbirri come della loro follia, e che si sarebbero potuti pentire quanto volevano, noi saremmo stati già da un’altra parte. Era come raccontare un album di fotografie, quando noi siamo passati già al digitale, se così vi riesce di capire meglio.
Siamo qualcosa di nuovo, ma anche di antico, il buco nero che inghiotte i segreti del Paese. L’ultimo arcano d’Italia.
Con Matteo che si è fatto voce, che si è fatto spirito.

Con Matteo che sempre cammina in silenzio accanto a noi.

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TAG: Giacomo di Girolamo, Matteo Messina Denaro, Matteo va alla guerra
CAT: Criminalità

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