Mafia e Antimafia: l’affondo inedito di Pignatone sull’Opera dei Pupi

9 Marzo 2015

 

«Qui parliamo di grandi imprenditori così come capita a Palermo. E parliamo, quel che è peggio ancora, per certi versi, di professionisti. Consentitemi di dire: a cominciare dai magistrati. Perché bisogna, prima di tutto, fare l’esame di coscienza: non è che tra magistrati e forze dell’ordine ci sono soltanto santi, eroi e martiri. Ci sono, come in tutte le categorie, persone per bene e persone meno per bene. Gente che s’ammazza la vita a tutti i livelli, dal comandante di stazione al procuratore della repubblica; e gente che la vita non se l’ammazza, anzi, se la gode mettendosi d’accordo. Epperò, tutta questa area grigia – chiamiamola come vogliamo, borghesia mafiosa, groviglio – lo fa per convenienza, non per paura. Lo fa per convenienza in Sicilia. Lo fa per convenienza in Calabria. Lo fa per convenienza in Campania».

Queste parole dure e impietose sono state pronunciate da Giuseppe Pignatone il 24 febbraio scorso a Roma, in occasione della presentazione del libro “Lo Stato Non Ha Vinto” scritto dall’ex pm anticamorra Antonello Ardituro (oggi consigliere al Csm). Dichiarazioni però che praticamente nessuno s’è filato, tanto meno rilanciato, fatta la tara dello Speciale Giustizia di Radio Radicale e qui, su Gli Stati Generali. In meno di un minuto, il Procuratore Capo di Roma ha pronunciato una vera e propria spiazzante “requisitoria”, non in pubblica udienza ma in pubblica libreria.

Una bella pettinata, insomma, fatta pure davanti un parterre di magistrati e forze dell’ordine, accorsi alla presentazione di un libro che sembra fare il controcanto a “La Mafia Non Ha Vinto” di Fiandaca e Lupo. Giornalisti? Non pervenuti sul pezzo. Vale su tutti la coincidenza temporale di questa “requisitoria”. Lo stesso giorno si presentava la relazione della DNA alla Biblioteca del Senato ma soprattutto sono gli stessi giorni, anzi il giorno dopo, che Attilio Bolzoni ed Emanuele Lauria con perizia di cronaca declinano ai propri lettori la seconda puntata del Montantegate. Pignatone è uno che non parla mai a casaccio. Non “tira aria ai denti”, misura le parole senza mandarle a dire nello stesso tempo ed è anche, per forza di cose, persona assai attenta in virtù del suo lavoro. Quel secondo round di Repubblica sulle sicule nebbie dell’antimafia il giorno prima lo ha letto, eccome. Occorre sempre fare attenzione alla fatalità delle parole e dei tempi. Il giorno prima Bolzoni e Lauria dedicano il loro ultimo capitoletto dell’articolo alla parola “impasto”, il giorno dopo, il procuratore di Mafia Capitale parla di “groviglio”. Se non è zuppa, è pan bagnato. Delle due parole, per ragioni squisitamente meccaniche e fotografiche, prendiamo in considerazione il “groviglio” in cui ora si trovano incastrati i Pupi dell’Opera. Che oggi Pignatone pubblicamente smonta, consapevole com’è, del rischio di un sistema di “autoctonie” lontane da quelle conosciute con mere punciutine e meri riti dei viddani di cosca.

Perché nel caso Sicilia è di Opera dei Pupi che si tratta. Il Pupo Siciliano ha una peculiarità meccanica tutta sua: e già che ci siamo, qui a Gli Stati vi sveliamo pure un segreto. Per prima cosa, il Pupo ha un lungo grosso tondino di ferro ficcato nella testa di legno scolpita da impareggiabili artigiani: che poi termina nelle mani del puparo con una parte ricurva come un manico di ombrello a cui s’allaccia il filo del braccio che regge lo scudo. Quella lunga e poderosa asta di ferro è in sostanza il “motore” che il puparo si ritrova nella mano sinistra mentre, con l’altra mano, muove il filo del braccio che serve ad agitare la spada. La mitica Durlindana di Orlando per intenderci (quella del furioso e sbraitante Crocetta, se preferite) o quella del feroce Saladino, secondo esigenze e ruoli utili alla rappresentazione buoni vs cattivi. Non tutti gli arti del Pupo siciliano però – a differenza delle tradizionali marionette – sono collegati con dei fili. Solo le braccia hanno fili, le gambe non hanno fili. Come fa dunque il Pupo siciliano a camminare senza fili alle gambe? Il trucco in realtà c’è ma non si vede. Il Pupo Siciliano ha una delle due gambe lievemente più corta dell’altra che bascula rispetto al piano del palchetto. È a quel punto che il puparo dà il colpo di “annacata”. Il colpo di spinta, insomma, utile ad aprire il passo al Pupo per farlo camminare all’Opera. Ovviamente, essendo diversi i Pupi da manovrare un solo Puparo non basta, ne occorrono almeno tre-quattro. Non meno importanti, oltre i pupari, sono i cuntastorie dello storytelling epopea che danno voce ai Pupi: ora con la prodezza, la tenacia e l’enfasi di battaglia, ora con l’incanto-disincanto e la passione della bella Angelica di carolingia memoria. Et voilà, l’Opera dei Pupi di certa antimafia.

I Pupi, quelli col trucco della gamba corta, sempre pronti ad aprire il passo in scena, in realtà sono più di quanto si possa pensare. Pignatone lo descrive come groviglio ed è l’impasto descritto e documentato sui pochissimi (si contano sulle dita di una mano e nemmeno) organi di stampa. Nel MontanteGate appaiono in buona fede e non, giornalisti, scrittori ed editori finanziati dalla filantropia dell’esponente confindustriale oggi sotto indagine, uomini dello Stato, professionisti, pupi e pupari della Prima e Seconda Repubblica presunta tale. Nell’inventario di magazzino poi c’è pure roba delicata, delicatissima: che a quanto pare sembrerebbe toccare, non sapremmo poi se di striscio o meno, pure qualche esponente della magistratura. La questione peraltro non è nuova nei distretti del sud, dove tribunali e procure sembrano pervasi da un’imbarazzante quanto inquietante penetrabilità bidirezionale tra i luoghi di giustizia e quelli di potere, che non aiuta affatto la credibilità dell’ordine giudiziario. Sono pure sotto gli occhi di tutti. Tutti “in paese”, nel comprensorio, si conoscono tra loro. Tutti hanno dettagliata contezza degli statini familiari e professionali di tutti, senza bisogno di fare indagini alcune. Alla fine trovi sempre un parente di qualsiasi grado del magistrato che: o fa il consigliere o l’assessore o il deputato, o sta nel cda di una società dai discutibili affari e appalti, o fa parte di una commissione garante, o presta servizio negli apparati investigativi: e via andare. Nella stessa città, nello stesso distretto di Corte d’Appello senza pudore alcuno. Aspetti problematici, su cui la stessa magistratura associata non riesce ancora oggi a venirne fuori seriamente: e non ci vuole molto, in fondo, a capirne il perché. Anzi. Oggi il “salto” di qualità alcuni magistrati lo hanno perfino fatto facendosi cooptare direttamente in incarichi di governo, ben altro, dunque, che la macchiettistica operazione elettorale tentata da Ingroia con la sua lista: alcuni di questi vanno dritti-dritti al governo senza manco “passare dal via”.

Conflitti di interesse, incompatibilità, califfati, cerchi magici, pupi e pupari di certa antimafia. Chiamateli come volete ma sono queste le vere e uniche priorità da affrontare in sede politica e corporativa. Altro che la stucchevole retorica sulla “antimafia sociale” o robe del tipo “gesù-gesù se scompare l’antimafia chi combatte la mafia?”, o le pièce teatrali antimafia imbastite da alcuni giornalisti-sceneggiatori che manco Giorgio Strehler. Oppure i bambini tempestati da variopinti cappellini e gadget traghettati a migliaia con le navi della legalità ad ogni anniversario, siano le Falconiadi o le Borselliniadi: chiamassero il telefono azzurro, semmai un giorno si potrà giustificare l’infanzia difficile a cui vengono consegnati. Über Alles, c’è una enorme ed inquietante questione di illiberalità totale da parte di questi pupari, ancor più se si tratta di imprenditori al vertice di istituzioni camerali o di categoria. Da questo punto di vista appare emblematica la vicenda di Roberto Helg, legatissimo al Montanteshire, arrestato in flagranza di reato a Palermo per una tangente di 100mila euro nel coté di Punta Raisi che lo ha visto al vertice della Gesap, classica società poli-partecipata che gestisce l’aeroporto di Palermo. Emblematica – occhio – non tanto per la vicenda umana e la condotta criminale di chi ha professato il corano legalitario del califfato antimafioso. Vicenda emblematica, semmai, per come si è arrivati al suo (e non solo) caso oggi culminato con l’arresto.

Basta leggere infatti (non sui giornali) come, Roberto Helg, abbia guidato la Confcommercio di Palermo per “soli” 18 anni e la Camera di Commercio per “soli” 9 anni. La lista dei califfati, delle loro permanenze, è lunga e vale anche per Montante. Oppure campioni come Vito Riggio, per esempio: che guida l’Enac (praticamente la torre nazionale di controllo dell’aviazione civile e dei suoi aeroporti) da “soli” 13 anni, anche adesso, perfino nell’era Renzi giusto per cambiare verso alle polpette. Portate pazienza, fino a quando è possibile continuare in questo modo?Ci sono personaggi di vertice che durano più di un Capo Di Stato: hai voglia poi a ostentare i Roberti, i Cantone, o creare authority in ogni dove. Peraltro. Prima ancora dell’odierno caso Helg, c’erano già un tot di denunce presentate sempre in quell’ambito aeroportuale lì, almeno dal 2009. Dunque, mentre alcuni pm di Palermo dell’era Ingroia erano impegnati a disseppellire il cadavere del Bandito Giuliano per verificarne la genuinità del cadavere (è accaduto anche questo), mentre alcuni pm di Palermo erano a cavalcare e beatificare l’oracolo dell’antimafia Ciancimino jr producendo la collana Urania Palermitana con l’improvvida Trattativa dal Patto di Yalta ad oggi, i “comuni cristiani” a quanto pare potevano contare su tutto: tranne che sulla giustizia. Ora che a Palermo è arrivato il nuovo procuratore capo Franco Lo Voi («Con me non ci sono magistrati di serie A né di serie B», fu l’incipit dell’insediamento), qualcosa sembra suggerire finalmente un cambio direzione e di senso della giurisdizione. Possibilmente, si ponga pure fine a questa storia che, in punto di azione penale in Sicilia, o tutto è Mafia (e Antimafia) per come l’abbiamo conosciuta nei vecchi cliché, oppure niente.

Per tutto il resto del dibattito, decisamente povero sulla stampa. Piuttosto che fare gli gnorri dopo aver edificato fortune editoriali decantando il Montanteshire in versi, teatro e prosa che manco il D’Annunzio Vate di Regime, si cominci ad informare, a ragionare, a sfatare con più coraggio qualche siculo mito cartonato,  a chiedersi – per esempio – se l’endemica e pervasiva illiberalità degli odierni Pupari, non rischia per caso di palesare una odiosa autoctonia anche in Sicilia sulla falsa riga di quanto emerso a Roma (magari pure e perfino in nome dell’Antimafia). Sempre meglio che ricorrere alle scorciatoie-pistolotto “sull’Antimafia sociale” o ridurre la vicenda del Montantegate ad un esclusivo e banale volo di stracci tra associazioni in lotta sull’affaire beni confiscati. Tutto sembra suggerire un rischio che forse non è poi così tale, ovvero: che all’intimidazione contemplata dal 416 bis si sostituisca la prevaricazione dei Pupi, dei loro grovigli, dei loro impasti. Roba che pure l’attento Pignatone ben conosce ed ha conosciuto a Roma, a Reggio, a Palermo: e pure nella sua Caltanissetta d’origine. Se oggi il Procuratore capo di Roma arriva a chiosare in quel modo, avrà il suo perché.

TAG: Anm, antimafia, caltanissetta, helg, mafia, magistrati, montante, palermo, pignatone, Sicilia
CAT: Criminalità, Giustizia

Un commento

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  1. michele.fusco 9 anni fa

    Sergione, alle nove e trenta la giornata mi si rischiara col tuo pezzo. Il tuo pessimismo definitivo è il mio, ma voglio sperare che il nero dentro la Sicilia non ti faccia velo sul nero dell’intero Paese. Quel groviglio è stato felicemente importato nel continente: l’Italia è fottuta e senza neppure un filo di demagogica visione. Abbracci, vecchio mio. M.

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