La gestione opaca e confusa dei beni confiscati alle mafie

18 Marzo 2015

Doveva essere un presidio della lotta antimafia, e invece è finito per essere un oggetto di contesa dell’Antimafia. Nata sull’onda dell’emozione contro gli attentati ai magistrati di Reggio Calabria del 2010, l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc) è oggi un’istituzione confusa, un territorio che tutti vogliono colonizzare, governare, riformare. Nonostante sia guidata da un uomo dal curriculum indiscutibile come il prefetto Umberto Postiglione, l’Agenzia ha un consiglio direttivo monco, cinque sedi di rappresentanza, di cui una a Napoli mai inaugurata, un comitato di revisori in attesa di nomina. L’Agenzia ha un personale di cui non si conosce il numero effettivo: «Al momento lavorano ai beni confiscati tra i 55 e i 60 funzionari», dice  Postiglione. Un patrimonio considerevole composto da beni immobili (8.500) e  mobili (1.707) ancora in attesa di destinazione: «Sono gestiti dall’Agenzia ma devono essere ancora assegnati», aggiunge il prefetto Postiglione. Poca trasparenza sui beni confiscati. A giudicare da quel che si legge sul sito Internet i componenti del consiglio direttivo sarebbero ancora «in corso di nomina», anche se così non è. Nessuna informazione sui dirigenti, sui consulenti, mancano pure gli ultimi rendiconti.

L’Agenzia gestisce un patrimonio che vale circa 30 miliardi di euro, quasi una manovra finanziaria, ha beni sparsi in tutta Italia, di cui il 43%  in Sicilia, e di questo più di un terzo soltanto nella provincia di Palermo. Ma nonostante questo la sede centrale, inaugurata il 21 marzo del 2010 dal ministro degli Interni dell’epoca Roberto Maroni, continua ad avere sede a Reggio Calabria perché difesa strenuamente dalla politica calabrese e dall’ex governatore forzista Giuseppe Scopelliti – nel frattempo condannato per abuso di ufficio e falso – che si oppose al trasferimento. «Avevo proposto di trasferire la sede centrale a Palermo, ma alla fine non se ne è fatto nulla», ricorda l’ex prefetto Giuseppe Caruso, che della struttura è stato il direttore dal 2011 fino a maggio del 2014. «L’Agenzia è nata in 48 ore ed è chiaro che oggi sia necessaria una riforma», aggiunge.

Dovrebbe essere lo specchio della trasparenza e invece il sito web dell’Anbsc è scarno e parziale, statistiche ferme al 7 gennaio 2013, una banca dati incompleta, quando non omissiva, e di ardua consultazione. Di molti immobili o aziende confiscate, elencati in modo anonimo, non si sa nulla: i file relativi non si aprono, l’ente destinatario non è indicato.Schermata 2015-03-18 alle 22.40.51

 

«Il sito Internet non è ancora aggiornato perché stiamo ancora aspettando che il ministero della Giustizia ci trasferisca tutti i dati», si giustifica Postiglione. Insomma, a cinque anni dalla sua nascita, l’Agenzia dei beni confiscati sembra l’ennesima occasione mancata. Oltre al direttore Postiglione, che percepisce una stipendio di 60 mila euro lordi annui, a guidare l’Agenzia ci sono quattro componenti: due magistrati e due membri indicati in concerto dai ministeri dell’Interno e dell’Economia, il cui compenso è di 25 mila euro lordi annui. I quattro membri che compongono il Consiglio direttivo sono il magistrato Mariella De Masellis, Marco Germigliani, il presidente della Procura Nazionale Antimafia Franco Roberti e Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia e delegato nazionale per la legalità di viale dell’Astronomia.

Ed è proprio Montante l’ultima spina nel fianco dell’Agenzia. Il leader degli industriali siciliani è stato indicato dal ministro degli Interni, Angelino Alfano, e poi nominato dal Consiglio dei ministri del 20 gennaio 2015. Ma si è già dovuto autosospendere a causa di una indagine della Procura di Caltanissetta e Catania che lo vede indagato per mafia. Un punto questo non lascia tranquilli nessuno. «L’autosospensione è un’idea di Montante. Io mi sono limitato a farmi spedire una comunicazione in cui Montante dichiara di essersi autosospeso e che ho messo agli atti. Ad ogni modo il consiglio direttivo può procedere anche con la defezione di un suo membro», fa sapere Postiglione. Secondo l’avvocato Michele Costa, figlio di Gaetano, procuratore capo di Palermo che è stato ucciso dalla mafia il 6 agosto 1980, «non esiste l’istituto dell’autosospensione nel nostro ordinamento giuridico». L’indagine che vede protagonista Montante non alimenta solo un duello giuridico, ma sta scompaginando l’universo dell’Antimafia chiamando in causa politici e intellettuali.

A Palazzo San Macuto, sede della Commissione parlamentare antimafia, si è arrivati perfino a istruire una indagine conoscitiva sull’Antimafia militante. A chiedere le dimissioni di Montante, e non una semplice autosospensione, è stata il presidente della Commissione Rosi Bindi, dopo un articolo pubblicato da Stati Generali in cui veniva portato alla luce l’atto di costituzione dell’associazione “Tavolo per lo sviluppo del Centro Sicilia”, fra i cui soci figurava Montante. Fra le finalità statutarie di questo “Tavolo” è espressamente indicata la gestione dei beni mafiosi confiscati dallo Stato, attività su cui Montante dovrebbe per un altro verso vigilare in quanto membro del consiglio direttivo dell’Agenzia. «Se un soggetto è un potenziale assegnatario dei beni non può fare parte dell’organo che li assegna», ha commentato la senatrice Bindi.

Come funzione dunque l’assegnazione di questi beni sottratti alla criminalità? L’Agenzia interviene dopo la sentenza di primo grado che sancisce la confisca di un bene, che in passato veniva incamerato dall’Agenzia del demanio. La legge prevede che i beni immobili vengano destinati agli enti territoriali (comuni, ex province, regioni), mentre i beni mobili (aziende, vetture, gioielli, opere d’arte) siano assegnati ad amministratori giudiziari. Ovvero, avvocati e commercialisti, appartenenti agli albi professionali di riferimento, selezionati discrezionalmente dai magistrati.

Il caso più eclatante è stato quello di Gaetano Cappellano Seminara che a Palermo ha amministrato l’Immobiliare Strasburgo confiscata al boss Vincenzo Piazza. Per cinque anni la società è stata gestita da Cappellano Seminara nel doppio ruolo di amministratore giudiziario e in contemporanea presidente del cda. Il professionista ha cumulato così entrambi gli stipendi: più di 7 milioni di euro come amministratore giudiziario e 150 mila euro come amministratore delle società. E vale ricordare che l’Immobiliare Strasburgo è da dodici anni sotto amministrazione giudiziaria.

Ad oggi una delle criticità è l’assenza di un albo nazionale degli amministratori giudiziari e di un tariffario unico che regoli in maniera uniforme i compensi da Agrigento a Torino. In pratica ciascun magistrato decide quale compenso liquidare agli amministratori, secondo una propria valutazione. «A distanza di quattro anni dal varo del codice antimafia i regolamenti sono stati istituiti, la legge prevede gli albi, peccato che degli albi non ci sia ancora traccia», spiega un alto magistrato che sta collaborando alla revisione delle norme in materia.

Finora sulla gestione dell’Agenzia si sono scontrate due correnti di pensiero. Chi, come  l’associazione Libera, da sempre impegnata nella lotta alla mafia e nella regolamentazione dei beni confiscati, chiede la restituzione dei beni alla collettività. E chi, come Confindustria, supportata in passato dal ministro Anna Maria Cancellieri e oggi da Alfano, crede che i beni debbano essere venduti a privati o gestiti da manager. «Una cosa è prendere Bernardo Provenzano, un’altra è far sopravvivere un’azienda in una economia di mercato», dicono dalla Procura nazionale Antimafia. Non di rado, una volta confiscate al mafioso le aziende perdono appetibilità, clienti, fornitori, così da uscire immediatamente dal mercato. Due esempi di assegnazione che ben riassumono le difficoltà dell’Agenzia sono la “Casa Rosa” di Rocca di Papa e l’ex ristorante “La Bazzica” a Grottaferrata, entrambi nel Lazio. Nel primo caso il sequestro è datato al 2008. La Casa Rosa è stata svaligiata, hanno sottratto pure i cancelli, e solo di recente sembra essersi aperta una soluzione con l’affido dell’immobile a un’associazione. Nel secondo caso, del ristorante “La Bazzica” è rimasto solo l’edificio divenuto un ricettacolo per senzatetto. Dell’attività commerciale non c’è più traccia. Un ulteriore esempio è stato portato alla ribalta dalla Commissione parlamentare Antimafia riguarda la società agricola Suvignano srl, in provincia di Siena. La società confiscata nel 2007 è oggetto di un braccio di ferro fra l’Agenzia che ne proponeva l’alienazione sul mercato e un gruppo di enti che aveva elaborato un piano di valorizzazione economica e sociale basato su agricoltura, filiera corta, energie rinnovabili e apertura di una scuola di legalità destinata ad accogliere giovani. Il braccio di ferro è finito con la decisione del ministero dell’Interno che ha sospeso l’asta pubblica in attesa di trovare una soluzione.

Il più delle volte i beni immobili vengono rifiutati dai comuni o perché gravati da mutui bancari o perché impossibili da requisire, o perché sono edifici che richiedono un intervento edilizio o infine perché sull’uso sociale di quei beni gravano le intimidazioni delle associazioni criminali. «Il 90% dei beni immobili hanno criticità e passano anni prima che vengano destinati, senza contare che in molti edifici continuano ad abitare parenti di boss che non vogliono andarsene», rivela Caruso. Si è arrivati perfino al punto che lo Stato ha dovuto pagare il condominio di alcuni edifici confiscati perché intestati solo al 50% al boss. «Una volta confiscato l’immobile, l’inquilino si rifiuta di pagare i servizi, ed è lo Stato a doversene fare carico», dice sempre Caruso.

E allora: vendere subito, o aspettare di assegnare i beni dopo? È il grande tema che dovrà affrontare la politica. Certo, non mancano gli esempi positivi come l’Hotel Gianicolo di Roma, a pochi passi dal cupolone di San Pietro, che sottratto alla ‘ndrangheta è stato non solo tenuto in vita, ma addirittura è riuscito ad assumere ulteriori dipendenti, tra questi un giovante e talentuoso chef calabrese.

Anche sul fronte dei controlli sull’operato dell’Agenzia non c’è da festeggiare. L’analisi più aggiornata della Corte dei Conti risale al 2010, e da allora più nulla. Nel maggio del 2014 dalla Commissione bicamerale antimafia ha messo nero su bianco i difetti: «La struttura, la dislocazione territoriale, la dotazione organica, le dinamiche operative, la prospettiva dell’agenzia non possono reggere l’onda d’urto costituita dall’onere di gestire l’imponente numero di beni confiscati in via definitiva e non». Siamo di fronte a un ente lasciato in balìa di se stesso, e di una normativa che non aiuta.

Intanto si lavora a una riforma che dovrebbe trasferire la sede da Reggio Calabria a Roma e sottrarre la vigilanza dell’Agenzia al ministero dell’Interno per affidarla alla presidenza del Consiglio. «Il ministero dell’Interno non ha competenze di carattere gestionale e l’attività dell’Agenzia ha bisogno di una sintesi che solo la Presidenza del Consiglio le può assicurare». afferma un magistrato impegnato nelle inchieste sulle mafie. Nel momento più difficile della sua giovane storia, il direttivo dell’Agenzia si appresta a riunirsi: a stessa è pronta a riunirsi il prossimo 25 marzo per assegnare altri beni con Montante assente illustre. In un contesto in cui un’antimafia delegittima un’altra antimafia, si appresta così a consumarsi forse l’ultima battaglia campale tra associazioni, uomini dello Stato, imprenditori. Tutti desiderosi di partecipare, un’altra volta ancora, al gran valzer dell’Antimafia.

 

Carmelo Caruso

Giuseppe Falci

 

Foto di copertina tratta dal profilo Flickr del ministro dell’Interno Angelino Alfano

 

TAG:
CAT: Criminalità, Governo

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