Non abbiamo bisogno di più sicurezza ma di meno indifferenza
La discussione oggi nella pausa tra i corsi universitari era accesa. Varie teorie in campo: dal “Manco fosse la prima volta che uccidono uno in strada di giorno” (quelli più duri) al “E’ una vergogna, bisogna chiedere più forze dell’ordine e più sicurezza” (quelli più istituzionali), passando per il “Non dobbiamo scandalizzarci di più perché è avvenuto fuori a un’università, ogni omicidio e ogni agguato sono da condannare”. Questi ultimi sono i più. Si è continuato così a discutere ancora per un po’ dell’agguato di ieri avvenuto a due passi dalle facoltà di Giurisprudenza e Lettere in pieno giorno. Alla fine delle lezione si corre a prendere i posti per il seminario.
Rimugino sulle parole che ho ascoltato. Quelle di chi dice di averci fatto l’abitudine: sono sempre le più tristi, ma anche le più finte. E quelle di chi pretende da sindaco e Governo più forze dell’ordine: forse non si sono accorti che Napoli da mesi è piena di alpini per l’operazione “Strade sicure”. Anzi mi correggo: le camionette presidiano quotidianamente Plebiscito, Gesù nuovo, san Domenico: il centro, dove è avvenuto l’agguato. Ma mai che se ne veda una a Napoli nord o nei rioni popolari. Se è questa l’idea di sicurezza dei nostri rappresentanti (universitari e istituzionali) mi ricorda molto la pretesa delle classi agiate dell’Ottocento di non avere bettole e ubriaconi sotto casa, nei quartieri bene.
Tuttavia mi incuriosisce di più chi, bilancia alla mano, ricorda che ogni omicidio deve suscitare lo stesso sdegno, indipendentemente dal luogo in cui avviene. Senz’altro, ma a loro vorrei chiedere: non trovate alquanto significativo che un omicidio (probabilmente di camorra) avvenuto all’ingresso del luogo dove crescono gli uomini di legge della nostra città non abbia spinto nessuno di loro a una riflessione?
Qualcuno potrebbe legittimamente chiedersi che riflessione avrebbe dovuto suscitare un fatto di cronaca nera. Io per esempio continuo a credere che con le penne nere degli alpini non risolveremo molto se non avremo prima affrontato la profonda decadenza culturale della nostra città. Che non è solo quella delle fasce più povere e semi-analfabete, ma soprattutto quella di classi dirigenti inadeguate se non addirittura indegne di essere definite tali. Innanzitutto quelle politiche, certo. Ma forse ancor più quelle professionali: decenni di dominio economico indisturbato della camorra hanno reso il Mezzogiorno il luogo più inospitale d’Europa per gli investimenti, gli economisti da tempo lo definiscono un mercato anti-concorrenziale. Lo spiega molto bene Piero Barucci in una breve raccolta di saggi edita dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, “Istituzioni e Mezzogiorno”. L’assenza di una anche minima parvenza di opposizione è la prova tangibile dall’inesistenza di un ceto medio che abbia qualcosa da difendere o per cui lottare. Chi promette di rivoluzionare la nostra regione e combattere la piaga della disoccupazione giovanile ignorando ciò sta spacciando essenze di promesse, peraltro di pessima fattura. La rivoluzione – culturale – della nostra città parte proprio dall’indifferenza di quegli studenti, ed è per questo che era diretto a loro il mio articolo di ieri: senza il loro impegno, il nostro impegno, Napoli non potrà mai uscire dal groviglio di sottoculture cui si è ridotto il suo tessuto sociale. E ci ritroveremo tra qualche anno a riscrivere le stesse parole, ripetere le stesse frasi, sperando che ancora una volta la vittima sia uno di loro e non, “scasualmente”, un innocente.
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