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Beni culturali

Insegnare significa tramandare quanto ci è stato trasmesso

di Titti Ferrante
3 Marzo 2022

“Busy old fool, unruly sun,
Why dost thou thus,
Through windows, and through curtains call on us?
Must to thy motions lovers’ seasons run?
Saucy pedantic wretch, go chide
Late school boys and sour prentices,
Go tell court huntsmen that the king will ride,
Call country ants to harvest offices,
Love, all alike, no season knows nor clime,
Nor hours, days, months, which are the rags of time”

Insegno perché provengo da una famiglia di insegnanti, ed è un lavoro che mi è sempre piaciuto. Tra me e i miei alunni c’è sempre stato un rapporto di reciproca stima e affetto. Quell’affetto che ci consente di imparare insieme, di ridere insieme, di supportarci a vicenda. Hanno persino il mio numero e quando capita che mi assenti, mi scrivono persino per chiedermi come mi sento.
Se in classe vedo un alunno che sta poco bene, me ne prendo cura, a prescindere dal fatto che il suo rendimento scolastico sia buono o meno. Vedo i miei alunni, e la cosa è reciproca, come persone. Li ho coinvolti nelle mie passioni, senza forzare mai la mano, e loro si sono lasciati coinvolgere. Alcuni dei miei alunni, terminati gli studi, sono addirittura diventati amici, nonostante la differenza di età. Forse perché in tutti i miei rapporti sono spontanea, accogliente, e accordo fiducia, forse perché mi sento un pò madre e colmo quel bisogno di essere il genitore che non sono stata.
Qualsiasi rapporto, per definirsi tale, ha bisogno di reciprocità. Il mio modo di essere mi porta a essere ben voluta da chi mi è simile, da chi è disposto ad entrare in relazione con me. Per relazione intendo, appunto, uno scambio biunivoco. Posso dire che tra me e i miei amici, tra me e i miei alunni c’è chimica, che deriva dall’intesa, dalla comprensione, dalla capacità di entrare in sintonia con l’altro.
La chimica non deriva da qualcosa di puramente fisico, esiste sicuramente una chimica mentale. La mente, tuttavia, è composta da tre tipi di cervello: oltre a quello rettiliano e quello limbico, esiste una parte definita corteccia in cui l’intelligenza assume la forma di condivisione di ideali e solidarietà. Ideali che porto nella mia borsa ogni giorno che entro in classe, valori a cui educo. Gli stessi valori a cui sono stata educata da ragazza dalle suore.
Accanto ad uno studio rigoroso, la carità, la solidarietà, la condivisione, le vivevamo attraverso l’opera concreta presso istituti che accoglievano orfani, ragazze madri, clochard. Oltre al rigore della disciplina impartita, ci veniva insegnato a emozionarci, a essere empatici condividendo le sofferenze altrui, a prestare aiuto a chi era bisognoso. Mio padre ci ha educato agli stessi valori che si respiravano in casa.
I giorni istituiti per fare memoria sono solo simbolici. La memoria la si fa quotidianamente essendo testimoni dei valori appresi, tramandandoli, operando secondo quanto ci è stato trasmesso. E siccome la memoria è qualche volta fallace, e siamo soggetti ad amnesie, bisogna ribadire continuamente con comportamenti giornalieri ciò che siamo non attraverso insegne pubblicitarie, ma segnando, lasciando, cioè, un solco in cui piantare semi di ciò che siamo.
Mi è capitato di dire ai miei alunni di imparare qualcosa, “par coeur” o “by heart”, intendendo di imparare mettendoci un po’ di cuore. Usare è un verbo che non contemplo nella mia vita, a meno che non sia corredato dalla parola cuore, che non significa giocare ad attaccare, come si usava un tempo, le figurine panini su un album.
Essere solidali significa essere presenti, abolire le distanze, non fare del social, posticcio di vita, il riflesso di idee distorte, pensieri costanti e quotidiani del nostro modo di vedere l’altro. Quello di cui ci siamo fatti un’idea guardando un social, e sul quale, dal piedistallo da cui siamo soliti guardare il mondo, non l’abbiamo mai davvero mutata.
Aggrappati alle nostre poco edificanti certezze, alle nostre vite comode, siamo soliti puntare il dito, e affondarlo sempre più in fondo nelle idee volgari che assolvono la nostra volgarità. Una volgarità spocchiosa, che si agghinda di perbenismo, nonostante gli occhi vuoti di un barbone non li ha visti mai. To be on your own significa seguire la direzione in cui per anni abbiamo piantato radici, predicando e attivandosi perché la collaborazione, la fiducia, potesse essere pane quotidiano.
Esistono guerre innescate senza che nessuno le abbia mai concepite, per voglia di sopraffazione, di rivincita, di ego smisurato, di cupidigia “That I may conjure in some lusty grove and have these joys in full possession.” Faustus (pg 8 line 153)
Perché si possa essere in pace bisognerebbe metterci davvero una pietra su, come si soleva fare nella tradizione ebraica quando si seppellivano i defunti.

In foto: Marcello Dudovich
Fotografia fra arte e passione

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