
Cinema
Al bivio della storia. «Per amore di una donna»
Stasera a Milano allo spazio cinema Anteo andrà in prima serata Per amore di una donna di Guido Chiesa.
Per amore di una donna è due cose: è un film ed è un libro. Al centro sta la stessa storia. Ciò che li differenzia è da una parte il punto di vista; dall’altra il titolo. Come vedremo più avanti questo non è un dato marginale, anche per comprendere la storia.
Comincio dal film
Anni ’70. Esther, un’inquieta quarantenne americana, alla morte della madre riceve una lettera: deve trovare una donna vissuta negli anni ’30 in Palestina – all’epoca sotto mandato britannico – che nasconde un segreto sulla sua vita. Arrivata in Israele, Esther è aiutata nella sua ricerca da Zayde, un professore dal passato ingombrante.
Anni ’30. Un villaggio di coloni, l’atmosfera di un mondo nuovo. Il contadino Moshe, rimasto vedovo con due bambini, chiama a dargli una mano una giovane donna, Yehudit, che sconvolge la sua vita e quella di altri due uomini, il sognatore Yaakov e il commerciante Globerman. Intrecciando i fili che legano passato e presente, Esther e Zayde scopriranno una verità sulle proprie vite che li libererà dalle loro inquietudini e, al tempo stesso, sarà un’occasione per ricominciare.
Guido Chiesa racconta come nel romanzo di Meir Shalev (1948-2023; il film è dedicato alla sua memoria) tutta la storia è raccontata da un punto di vista maschile, quello di Zayde. A un certo punto del libro lui racconta che Yehudit, una donna che aveva vissuto negli anni ’30, aveva avuto una bambina e che le era stata portata via, in maniera violenta, dal marito. E forse poteva essere questa la ragione per cui questa donna urlava tutte le notti. È stato allora, dice Chiesa, che mi sono chiesto cosa sarebbe accaduto se questa bambina, un giorno, avesse ricevuto una lettera, lasciata per lei dalla madre morta. Una lettera che le raccontava una realtà che aveva sempre ignorato. E aggiunge: è stato un espediente per rendere la narrazione più intensa, intrigante, perché alla fine non fai altro che introdurre un’indagine. Poi, col tempo, ci siamo accorti che questo personaggio poteva essere lo sguardo dello spettatore e, di conseguenza, anche il nostro dentro un mondo che non conoscevamo.
Tornerò tra poco su questo sguardo “dentro un mondo che non conoscevamo”.
Consideriamo ora il libro. È Zayde la voce narrante che accompagna il lettore. Al centro della storia è la madre, Yehudit una donna forte e indipendente, che vive una profonda sofferenza. Tre figure maschili si alternano sulla scena: sono gli uomini, diversissimi tra loro, che si contendono l’amore di Yehudit e la paternità di Zayde, occupandosene generosamente a modo proprio e secondo i propri mezzi. Mescolando voci ed episodi, passato e presente, Zayde ricrea una fitta trama di rapporti personali, di fatti che si intersecano per arrivare a ricostruire un mosaico esistenziale collettivo al cui centro campeggia il mistero di Yehudit, dentro un microcosmo rurale che assume la dimensione di rappresentazione universale dei conflitti.
Ora consideriamo il titolo. In gran parte delle traduzioni (italiano, spagnolo, olandese, inglese) il centro del titolo è dato da una parola chiave: donna. Il titolo originale con cui Shalev pubblica questo romanzo nel 1994 per la casa editrice Am Oved però non contiene la parola donna. Il titolo in ebraico è Ke-yamim aḥadim (lett.: come pochi giorni) e allude al verso di Genesi (cap. 29, verso 20) laddove si legge: “E Giacobbe servì sette anni per Rachele; e gli parvero come pochi giorni tanto l’amava” [qui la versione originale del testoוַיַּעֲבֹ֧ד יַעֲקֹ֛ב בְּרָחֵ֖ל שֶׁ֣בַע שָׁנִ֑ים וַיִּהְי֤וּ בְעֵינָיו֙ כְּיָמִ֣ים אֲחָדִ֔ים בְּאַהֲבָת֖וֹ אֹתָֽהּ׃]
Il tema è la capacità di attendere. Il processo che conduce a un obiettivo finale è intrinsecamente significativo. Troppo spesso, nella nostra impazienza, consideriamo il periodo di attesa come tempo sprecato, una necessità indesiderata, e questo porta a esasperazione e frustrazione. Dobbiamo ricordare che ogni volta che lavoriamo per raggiungere un obiettivo, il periodo intermedio è “Ke-yamim ahadim” – un periodo di tempo importante e significativo che dovrebbe essere apprezzato e considerato come qualcosa di prezioso, piuttosto che causarci risentimento e angoscia.
Tutta la storia di Ester Horwitz, l’inquieta quarantenne americana che noi vediamo muoversi prima con insofferenza, poi con impazienza, poi con ansia non è altro che la rappresentazione di questo processo, così come nel testo di Shalev quella ricostruzione che è il recupero del proprio tempo riguarda la voce narrante del romanzo, Zayde Rabinovich.
E tuttavia quel qualcosa di prezioso non è solo avere conoscenza di un passato ignoto. Insieme, è anche la tensione per recuperare il bivio della storia laddove molte cose potevano essere e poi si sono perse.
Quella scena è ciò che nelle parole di Guido Chiesa indica come riprendere la connessione e puntare lo sguardo “dentro un mondo che non conoscevamo”.
Quella non conoscenza non riguarda solo Guido Chiesa e la sceneggiatrice Nicoletta Micheli. Riguarda i protagonisti della storia, ma probabilmente nelle intenzioni di Meir Shalev riguarda anche il suo lettore israeliano.
Siamo nel 1994 quando il libro esce in Israele. Siamo esattamente a metà del biennio che intercorre tra i primi accordi di Camp David tra Autorità Nazionale Palestinese e governo israeliano e l’uccisione di Rabin (3 novembre 1995) che di fatto segna l’archiviazione di quella possibilità.
Quella allusione al tempo prima dello Stato è il tempo delle possibilità, di un futuro ancora non scritto, che si può pensare di scrivere, o che forse si può pensare di tornare a scrivere. Prima che le cose acquistino una piega. O almeno l’allusione è alla eventualità di un percorso «altro» di cui Shalev non fornisce il menù ma una parte degli ingredienti. Che sono la possibilità di una vita altra, le scelte possibili «per ricominciare». Non sono un galateo né un elenco di cose buone da fare o da non fare.
Shalev in Ke-yamim aḥadim non ha la pretesa di dare un catechismo per il futuro. Lo stesso vale per Chiesa. Nel libro, come nel film, è lì che la storia si conclude. Sulla soglia. Appunto «al bivio». Il resto è la possibilità di delineare un diverso percorso per il quale non ci sono ricette, ma solo disponibilità a scommettere su un futuro diverso.
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