Un fotogramma de La Trama Fenicia, ultimo film di Wes Anderson

Cinema

“La trama fenicia”, il sogno a occhi aperti di Wes Anderson è diventato manierismo

Nelle sale l’ultimo film di Wes Anderson

31 Maggio 2025

Con “La trama fenicia”, nelle sale italiane in questi giorni, Wes Anderson ripropone le lunghe carrellate, le riprese dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso, i tagli dei volti di tre quarti o per intero in primissimo piano, i dettagli puntigliosi fino alla noia, i colori pastello, le morbide variazioni accostate come in mondi di dolcezze spropositate proprie del kitsch statunitense, insomma, tutte le qualità proprie della poesia stralunata del regista che vi concentra tutta la sua ansia di décor, di ostendere il reale sotto le sembianze di una tenera colorata  follia, che si svela nei volti dei protagonisti, chiamati a rispondere allo spettatore, a guardarlo sfrontatamente nella macchina da presa, combinando brevi e intensi attimi grazie alla velocità della macchina e della storia, perché il regista non vuole permettere a nessuno di soffermarsi sulle infinite sorprese che vengono inquadrate nella loro assoluta bellezza pittorica, in un fremito che percorre dall’inizio alla fine il sogno a occhi aperti che è sempre il “suo” cinema.

Qualità che ne “La trama fenicia” sprofondano in un manierismo, in una ripetitività spesso banale e occasionale, che scade a volte perfino nell’ideologia più retorica. Anderson denuncia carenza nell’invenzione e un’imperdonabile leggerezza sussiegosa, che stavolta delude i suoi seguaci, me medesimo compreso. Il piccolo paradiso della gratuità artistica diventa meccanica perfino nella fantasia che lascia scorgere il congegno puerile dell’opera, il punto d vista bambinesco, che presiede a una trama poliziesco-giornalistica, in cui tutto è iridescente e cangiante, e vibra al ritmo di vicende allegre e scanzonate, leggere e piccanti, irridenti e ingessate, fumettistiche e sfacciatamente ingegnose come appunto è l’infanzia stessa, ma in modo scontato, e perciò teso a mostrare tutti i limiti de “La trama fenicia”, sorta di stanca ripetizione del passato cinematografico dell’Artista.

Bizzarro, futile fin quasi alla sciocchezza, colorato e imprendibile, sfuggente come un gioco o un dono di un bacio di cui non si sa neanche il significato, dunque dato per dare, per provare, per conoscere, e che resta, comunque, dopo la prova, cioè dopo aver dato il bacio, nel dubbio e nella nebbia, “La trama fenicia” conserva del miglior Anderson proprio la leggerezza, la grazia con cui attori splendidi interpretano i loro ruoli e forse, la miglior trovata del film, i dialoghi netti, taglienti, senza sentimento, vere apodittiche sentenze. Prendono sempre più forma la tanatofobia, le convinzioni ateistiche e aumanistiche, l’antropofobia di Wes Anderson, che mostra uno degli aspetti della società dello spettacolo: il trionfo dei servizi segreti e qui si avverte il miglior Debord: “I servizi segreti (…) interpretano il perno centrale (…) fungono da arbitri degli interessi generali (…). Si sorveglia segretamente ciò che è segreto. In modo che ciascuno di questi organismi, confederati con notevole scioltezza attorno ai responsabili della ragion di stato, aspira per proprio conto a una sorta di egemonia priva di senso. Perché il senso si è perduto con il centro conoscibile”.

Uno degli aspetti più intriganti del film è il velo sottile tra sogno e realtà, tra vita e morte: tutti in bilico, e qualcuno è “biblico”, cioè si esprime come se tutto fosse riconducibile a una mitologia, a un racconto leggendario di cui si sente investito in prima persona, fino ad assumere le fattezze di un patriarca. Alla fine si scopre che il fratello definito “biblico” è la personificazione del Male, e forse la proiezione della propria metà malefica, quella che rende mortifero ogni aspetto della propria esistenza. Resta intatto Il messaggio che ogni volta viene da Wes Anderson, e cioè che nei suoi film si può fare a meno della verità, che finalmente appare per quella che è: un’invenzione di qualcuno che ha in dispregio l’essere umano. Il registro del simbolico entra a far parte pericolosamente della realtà del racconto filmico, l’irruzione tende a cancellare la logica stessa del film, e rende l’opera una provocazione continua, una oscena rivelazione del ridicolo che sta dietro ogni azione, ogni gesto, ogni pensiero.

La tentazione nichilista di Anderson è fortissima, e lui ci prova a scardinare l’impianto del reale, ma il film è pur sempre un pezzo di muro su cui si proietta una sequenza di una pellicola che gira, e a questo fondamento, a questo pezzo di finzione gettato su uno schermo reale, l’autore resta avvinto e non potrebbe fare diversamente, anche se a volte ci sono situazioni che sembrano talmente reali da cancellare ogni finzione. Il cinema presta gli occhi e lo spettatore presta gli occhi al film: uno specchio che non vede ne assume quattro, un trucco della meccanica che è il cinema, specchio delle umane perversioni, come osserverebbe Slavoj Zizek.

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