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Cinema

Rivedendo “C’era una volta in America” di Sergio Leone

di Alfio Squillaci
6 Aprile 2015

Vidi “C’era una volta in America” non appena uscito nelle sale nel 1984. Trovai questo minuzioso, compiaciuto, lentissimo affresco della mala newyorchese, quella ebraica che precedette la siciliana, francamente troppo lungo (quegli squilli infiniti di telefono!) e squilibrato, ossia prolisso e senza un “nucleo centrale”. Mi sembrò anche artefatta la volontà filmica di impadronirsi della storia o dell’epopea, seguendo i propri punti di vista e stilemi, di un’altra nazione. Suona falso e posticcio. Qualcosa di simile tentò Baricco con risultati catastrofici con “City”, il romanzo americaneggiante sul pugilato americano. Ora, nessuno si sognerebbe di fare un affresco della mafia, che so, chirghisa a Mosca, essendo quasi nulla la forza attrattiva di un simile soggetto. Con l’America tutto si può, anche un atto di piaggeria narrativa.

A me, dirò una cosa forte, non piaceva nemmeno il western di Sergio Leone: anche qui i tempi narrativi erano dilatati come in un film di Bergman  (nella scena finale del duello c’era sempre un che di troppo o di insistito da grottesca école du regard) oltre ogni limite di sopportabilità e ove l’unica cosa che funzionava davvero era la musica potente e struggente, ad un tempo lirica e narrativa, di Morricone. Qualche critico americano definì gli “spaghetti western” di Sergio Leone più propriamente “Operatic western” vedendoci giusto: ossia l’applicazione di stilemi tipici del melodramma italiano su una tradizione filmica, quella del cinema western americano, che era innanzitutto biblico-protestante (l’esodo, la carovana dei mormoni, l’arrivo nella terra promessa ossia il lontano occidente, appunto far west, i predicatori, i fuorilegge e la loro implacabile caccia veterotestamentaria, ecc). Nulla di tutto ciò che avevamo visto nel grande western di John Ford o Howard Hawks c’era nei film di Sergio Leone: diremmo che c’era il “contesto” filmico del western ( i cappelloni, gli speroni, i cavalli ecc) ad eccezione degli indiani (forse già ritenuti politicamente scorretti o forse perché costavano troppo le comparse nelle scene di massa) ma non il suo “testo”, ciò che ne faceva un genere da interpretare o da trasgredire restando però dentro il suo codice visivo e gnomico, da John Ford a Sam Peckinpah e oltre,  fino all’ultimo spassosissimo ma up to date Quentin Tarantino (il quale, per complicare le cose, proprio ai nostri B Movie faceva riferimento).

Di più: i personaggi propri di una vicenda che innanzitutto era nazionalpopolare in senso alto,  americana, cioè propria di un popolo- nazione che in quella narrazione ritrovava i propri miti e la propria epopea fondativa con i propri personaggi tipici in situazioni tipiche  (il biscazziere, l’alcolizzato, il predicatore, il cow boy, l’out law, lo sceriffo implacabile braccatore veterotestamentario ecc ) nei film di Leone venivano ridotti alla silhouette disossata di personaggi da opera italiana (che ha la sua altissima dignità artistica, ma è altra cosa): il buono (il tenore), il brutto (il baritono) e il cattivo (il basso), ossia semplici attanti o mere funzioni proppiane per dirla con la narratologia franco-russa, cioè per nulla personaggi, men che meno persone colte in una temperie psicologica e con la potenza stilistico-epocale di un’autentica ispirazione. Ma puri personaggi d’opera dunque, genere artistico ove l’intreccio non conta – non è ossia una “storia” che lungi dall’essere una benevola concessione al lettore è  quella e solo quella con cui un significato tocca terra -, ma è superfluo o volutamente esagerato come il trucco e parrucco pesante dei cantanti, narrativamente dilatato e a differenza che nel romanzo per nulla stringente  e ove, in fondo, contano gli elementi extranarrativi o di mero obbligato  contesto e di prammatica: l’aria, la cavatina,  l’acuto o il do di petto del tenore (le episodiche sparatorie e la sparatoria  finale). Come ho rivisto perciò oggi “C’era una volta in America” in versione integrale per giunta? Come i suoi western. Come un fumettone, una graphic novel, una operatic gangster, giochicchiando a scacchi, guardando di sottecchi qualche scena clou e beandomi della musica di Morricone, che adoro immensamente dai tempi indimenticabili di “Giù la testa”:  e che è il vero capolavoro di questo film.

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