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Liberare la danza: intervista a Massimo Carosi
Bologna. Liberare la danza e, in qualche modo, fecondare il futuro di un luogo, città o intero paese che sia. Fecondarlo di umanità, di cultura, di pensiero, di memoria, di bellezza. È così che potrebbe sintetizzarsi la proposta artistica della ventottesima edizione del Festival “Danza Urbana” di Bologna (dal 3 all’8 settembre 2024). Si tratta di una manifestazione di respiro internazionale che, sin dalla sua prima edizione, affianca e intreccia con generosità danza contemporanea (nuovi talenti, grandi protagonisti e realtà artistiche consolidate) e pensiero, estetica e riflessione politica, mettendo in relazione la creazione coreografica con la città e, in particolare, con spazi fisici non convenzionali, laterali, talvolta periferici, e comunque non immaginati e realizzati per accogliere opere d’arte o spettacoli. Luoghi della città che, in questo modo, possono essere riscoperti, percepiti diversamente dalla collettività, attraversati da una necessaria e intelligente proposta di cambiamento. Ne abbiamo parlato con Massimo Carosi, direttore artistico di Danza Urbana e, insieme con Luca Nava e Luisa Costa, suo principale animatore.
Ventotto è il numero delle edizioni del “Festival Danza Urbana” di Bologna: un numero bello corposo che racconta come questa manifestazione sia nata e si sia sviluppata da un’idea veramente feconda: mettere in dialogo la danza contemporanea con la città, al di fuori dei luoghi deputati allo spettacolo. Quali sono oggi, a suo parere, i frutti più significativi di questa avventura artistica?

Tra i temi che indagherete nel corso di questa edizione particolarmente interessante appare il rapporto tra vicinanza digitale e distanza fisica in un contesto urbano che se non è continuamente ripensato può diventare fonte di alienazione. Può chiarire meglio questa direttrice di indagine?
«Questo tema è strettamente connesso a due creazioni in programma al festival e che sono legate al rapporto tra arti performative e paesaggio: ATMOSFEROLOGIA > Veduta – Bologna di MK e Mirada di Elisa Sbaragli. In realtà gli strumenti digitali e tecnologici sono al servizio di una ricerca che vuole indagare il rapporto con la visione e la percezione di una veduta. Elisa Sbaragli in Mirada lavora fra micro e macro, fra dettaglio e visione panoramica, consentendo allo spettatore di costruire un proprio percorso percettivo e di visione attraverso la sovrapposizione tra l’immagine digitale e quella dal vivo con un “montaggio” attuato in tempo reale dallo spettatore stesso. In ATMOSFEROLOGIA – Veduta – Bologna, la traccia audio realizzato da Lorenzo Bianchi Hoesch consente di immergersi in un ambiente sonoro che è l’intrecciarsi tra i rumori della città dal luogo in cui il pubblico è convocato con quello finzionale della creazione. Questo ambiente sonoro in cuffia consente di accompagnare lo sguardo dello spettatore nella visione dei piccoli accadimenti all’interno di una veduta, dal punto più prossimo fino al punto più distante dal pubblico. Tutto ciò consente di cogliere la coreografia nel flusso stesso della città all’interno del quale si inseriscono gli interventi dell’autore e dei performer per guidare il pubblico in questa esperienza. Questi due lavori ci interrogano sulla nostra identità ONLIFE, secondo la definizione proposta da Floridi, dove questi due condizioni, fisica e digitale, si intrecciano fra loro creando uno smarrimento percettivo».
Da questa direttrice di indagine sembra nascere anche la riflessione sui processi di cambiamento dello spazio urbano. Processi che diventano metafore di apertura al futuro o di rifiuto di esso, accoglienza o rifiuto del cambiamento culturale e interiore.
«Il Festival Danza Urbana si è sempre interrogato sullo spazio urbano, la dimensione pubblica e civica dei luoghi della collettività, sulle trasformazioni urbanistiche e sociali che attraversano Bologna. Il dialogo e il confronto con urbanisti, architetti, paesaggisti, antropologi e sociologi è sempre stato fertile, producendo nel tempo numerose iniziative e progetti e alimentando il desiderio di indagare e riflettere ulteriormente su questi temi. Il punto di osservazione degli artisti, quando originale e spiazzante, ci aiuta ad assumere una maggiore capacità critica e una diversa consapevolezza rispetto a tematiche che appaiono spesso distanti dalla nostra realtà e puramente tecnocratiche e che invece incidono profondamente nel vissuto di ciascuno di noi. Il Festival in ogni edizione costruisce un racconto sulla città attraversando diversi luoghi e accogliendo una molteplicità di sguardi. È un tentativo di sottrarci alla paura del cambiamento e alla nostalgia dei paesaggi perduti per immergerci nel tempo presente cercando di attivare una presa di coscienza dei cittadini sulla qualità dell’ambiente in cui viviamo, dove con “ambiente” non intendiamo solo le questioni ecologiche, ma anche sociali e politiche».
In questo contesto tematico che guarda al futuro come costruzione del cambiamento perché avete voluto inserire la memoria della Resistenza partigiana a Bologna?
«Il festival in questa edizione lavora su due direttrici. Quella del tempo presente, del “qui e ora”, attraverso azioni performative che si inseriscono nel flusso della città e quella delle memorie collettive e individuali che ci aiutano a leggere il presente. All’interno di questa ultima linea di programmazione si collocano sei eventi; fra questi, due sono legati al recupero di memorie legate al periodo della Seconda Guerra Mondiale. In particolare, la camminata storica sulla Resistenza curata dall’Istituto Storico Parri, è proposta l’8 settembre come ricordo di quel giorno del 1943, particolarmente drammatico per l’Italia, che segnò un cambio di passo nella lotta al Nazifascismo. Questa camminata si concluderà presso l’Istituto Storico Parri con la riapertura alla cittadinanza dei suoi archivi. Questo evento è la giusta premessa per lo spettacolo […]KZ di Paola Bianchi, una creazione commissionata dalla Stagione Agorà per il progetto ELP / Corpi reclusi nell’ambito di Voci della storia, che parte da un archivio di interviste a una cinquantina di sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, che è stato recentemente recuperato. Paola Bianchi si è confrontata con le parole dei testimoni, che come coltelli incidono la sensibilità di chi le ascolta e, ancor di più con i vuoti, i silenzi che trasmettono l’indicibile. Avvertiamo l’esigenza di sottrarre all’oblio del tempo le testimonianze di chi ha vissuto i terribili crimini della violenza nazifascista. Occorre immunizzarci da ideologie che rischiano di trovare oggi nuovi terreni di coltura. Bisogna tenere viva la memoria di quelle vicende per guardare al futuro con una diversa consapevolezza».
Quanto ha inciso, secondo lei, nel panorama della danza contemporanea italiana la possibilità che voi avete aperto e sostenuto di immaginare “strutturalmente” la creazione coreografica al di fuori degli spazi deputati allo spettacolo?

Sia come Associazione sia come Festival avete una dimensione internazionale che assegna autorevolezza alla vostra visione del panorama della danza contemporanea: c’è una peculiarità italiana nella danza contemporanea? Oppure gli scambi tra giovani artisti hanno già creato un linguaggio internazionale che va oltre le peculiarità nazionali?
«La danza in relazione al paesaggio o allo spazio pubblico in Italia sconta una rigidità normativa che non riconosce la possibilità a questo ambito di accedere ai finanziamenti ministeriali. Le norme non riconoscono al Settore Danza delle eccezioni dall’obbligo dello sbigliettamento per accedere al Fondo Nazionale dello Spettacolo dal Vivo come per esempio sono ammesse in altri ambiti, quali nel Teatro il teatro di strada e quello di figura. Non è pensabile proporre degli spettacoli nello spazio pubblico, imponendo un biglietto, senza che questo snaturi la percezione stessa del luogo, privandolo della sua natura pubblica, ponendo così l’opera in contraddizione con il tipo di intervento culturale che si prefigge. Questa situazione costituisce un grosso ostacolo allo sviluppo di una circuitazione e diffusione di opere pensate per lo spazio pubblico: se da un lato gli artisti e i programmatori non sono soggetti a logiche di “mercato”, dall’altra diventa per loro poco sostenibile la produzione di opere di danza urbana. Tutto ciò ha comportato che le poche opere realizzate siano di particolare pregio, perché nate da un’urgenza più che da un’esigenza di mercato».
Per il programma e maggiori informazioni: https://danzaurbana.eu/
Crediti fotografici di Virgilio Sieni, Daniele Mantovani, Sabrina Tirino, Raffaello Rossini, Marco Coniglione.


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