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Primavera dei Teatri, il ritorno di Manfredini e altre sorprese

Da venticinque anni la rassegna ideata e allestita da Scena Verticale a Castrovillari è un avamposto importante del teatro contemporaneo dove vedere in anteprima gli spettacoli della prossima stagione, scoprire talenti e cogliere le novità

7 Giugno 2025

CASTROVILLARI – Dove la scena rinasce ogni volta. A Castrovillari, in Calabria, in una sala parrocchiale o al “Vittoria” riaperto dopo anni nella centrale via Roma, laddove si anima lo struscio serale. Ma pure nell’ex convento del Duecento, 300 posti tra galleria e platea, un teatro pubblico ricavato da antiche scuderie nel 1845 per iniziativa e merito di Carlo Maria L’Occaso, storico, poeta e mazziniano. E’ qui che fioriscono i cento fiori della Primavera dei Teatri. Festival anticipatore delle stagioni che verranno, importante vetrina del contemporaneo del quale mostra ansie e umori. Ogni volta è un piccolo grande miracolo che si rinnova. Inventato venticinque anni fa da Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano tre coraggiosi teatranti della illuminata compagnia Scena Verticale artefici di quello che nel nostro Meridione poteva essere l’ennesimo sogno impossibile. Costruire cioè un evento di respiro nazionale, originale e necessario. Con le antenne sempre in movimento alla ricerca del nuovo, per allestire un credibile palinsesto di festival dedicato alle nuove drammaturgie, i tre hanno inventato qualcosa che prima di loro in Italia non esisteva. Uno spazio libero e franco, aperto ovviamente ai teatranti, ma anche alla critica e ai produttori che vengono da queste parti per annusare l’aria che tira, cogliere i primi segnali di un movimento o più semplicemente fotografare nuovi talenti.

Pubblico in attesa di entrare ad uno spettacolo al teatro Vittoria una delle location di “Primavera dei Teatri” (Foto Angelo Maggio)

Questo spiega l’alto numero di prime o anteprime nazionali presenti anche in questa edizione, dedicata alla memoria di Claudio Facchinelli -amico del festival fin dalla prima edizione- che è andata avanti, dal 26 maggio al 1 giugno (in questo reportage la cronaca dei giorni dal 28 maggio al 1 giugno compreso ndr) con il suo carico di eventi: spettacoli, ma anche mostre, incontri, libri e filmati. Un’arena protetta dal rumore delle grandi metropoli e quello semantico dei media. Una fucina di idee in cerca di confronto che  in ogni edizione segnala le tendenze di ricerca nell’ambito del contemporaneo. Di grande rilievo stavolta il segno femminile, con attrici dotate di spiccata personalità. Oltre alla bravura.

Io in Verticale”

E’ questo il caso della romana Francesca Astrei. Nel suo curriculum collaborazioni con Armando Punzo, Roberto Rustioni e una “Metamorfosi” di Kafka diretta da Giorgio Barberio Corsetti. A Milano ha vinto due anni fa il “FringeMi” con il monologo “Mi manca Van Gogh” da lei scritto, diretto e interpretato. Esattamente come ha fatto con “Io sono verticale” presentato alla “Primavera”. Francesca ha un’allure leggera mentre spande verità profonde. Sulla scena  si svela poco a poco, in modo progressivo, fino ad esplodere con una fresca sferzata di energia che mette in chiaro Astrei come interprete di razza. Torrenziale nell’eloquio, tenera nelle espressioni di sorpresa, ironica nello sguardo distaccato e malizioso che accompagna ad un impagabile senso dell’humor: raro e contagioso. Galilea anno trenta o giù di lì. Sta per accadere qualcosa d’importante.

L’attrice Francesca Astrei al debutto nazionale a Castrovillari con lo spettacolo “Io sono verticale” (Foto Angelo Maggio)

Prima è l’addio a una vita: un microfono scende veloce dal cielo. Toglie l’aria schiacciando in posizione supina il designato. Dissolvenza e si assiste in diretta al miracolo di Gesù. Roba che finirà poi nelle cronache dei Vangeli (anzi, solo in quello di Giovanni): la resurrezione di Lazzaro. Cioè Lazzaro di Betania scomparso quattro giorni prima. A una delle due sorelle, quella minore, Marta (l’altra è Maria) il Salvatore esorta ad avere fede (“ io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno” da Giovanni). Rimossa la pietra dal sepolcro Gesù ordina: “Lazzaro, alzati e cammina”. Quella che seguirà è la cronaca dettagliata. Pochi e lunghi piani sequenza in cui Marta è la narratrice di quanto accade dentro e fuori dal sepolcro del fu fratello che, nel frattempo, si è popolato di una varia umanità richiamata dal clamore dell’evento. Astrei è puntuale narratrice che fotografa minuto per minuto l’evoluzione della storia interpretando e dando voce a diversi personaggi personaggi del villaggio, ma anche quelli del mondo animale….

Ed è un nervoso braccio di ferro tra sorella e fratello che, alle impellenti richieste di Marta non risponde e non si muove. Non capisce perché, regolata la pratica del trapasso, dovrebbe tornare in vita (“morire, dormire,non essre…”). A che pro?

Un altro momento della prima di  “Io sono verticale” monologo scritto e interpretato dall’attrice Francesca Astrei (Foto Angelo Maggio)

In contemporanea e in rapida successione accade che una donna anziana avanzi richieste impossibili, come la sfilza dei perché del figlio di Marta e c’è Giuda Iscariota che si proponga come baby sitter per soli “trenta danari”… e infine le pecore: queste prendono coscienza del loro essere destinate al sacrificio… altro che “Agnus Dei”: l’animale sacro alla fine della giostra dovrà finire sullo spiedo. Nel tourbillon di battute e personaggi sullo sfondo si materializza un serio confronto tra fratello e sorella sul tema del dolore, tra chi “è chiuso nel proprio soffrire” e “il mondo di fuori diventa qualcosa di troppo pesante, qualcosa di più doloroso del dolore stesso”.  Francesca Astrei mantiene con sicurezza il doppio registro di rappresentazione e riflessione filosofica, seguendo un ritmo sostenuto che, solo verso la fine, accusa qualche dèfaillance, a cui sarà facile porre rimedio una volta che lo spettacolo sarà rodato. L’insieme dell’opera, racconto e acting, conquistano in ogni caso, in virtù di un formidabile registro ironico rivelatore di vero talento.

Domineddio”

Cecilia Foti mette in scena con l’ausilio e la mano registica di Saverio La Ruina un caso di sopraffazione e volontà di dominio maschile. Un caso purtroppo ormai da manuale, tanto più che i due protagonisti del racconto oggetto della rappresentazione sono colleghi di lavoro. Professione molto speciale. Quella dei poliziotti. Che dovrebbero essere tra i primi a intervenire per bloccare i frutti avvelenati di secoli del patriarcato. Ma in questo caso no, non succede. Il racconto prende le mosse dall’origine della storia sentimentale della coppia in questione-galeotto fu l’incontro in un corso di formazione per futuri agenti di pubblica sicurezza- e mostra le tracce di un lavoro di ricerca, compiuto nel corso degli anni da La Ruina sulle storie di violenza al femminile. Come “Domineddio”, una tra tante che Cecilia Foti nello studio frutto di una residenza di lavoro legge con particolare intensità regalando una interpretazione accorata, eppure straniata per meglio evidenziare le ferite e indicare così la linea di faglia che, dopo un certo periodo terremota molte relazioni, all’inizio anche appassionate e coinvolgenti.

L’attrice e cantante Cecilia Foti nell’intensa prova di “Domineddio” diretta da Saverio La Ruina al festival “Primavera dei teatri” (Foto di Angelo Maggio)

Poi c’è il lento e inesorabile degrado. L’uomo toglie sempre più spazio alla compagna, monta scenate di gelosia, colpendo con le offese (“sei una cosa”) e le botte: la violenza su “una bambola rotta” che trova infine il coraggio di ribellarsi. Cecilia Foti ha carattere e bella presenza, capace di dare il giusto pathos mostrando anche le virtù canore in una perfetta versione di “Bellissima”, la hit portata al successo da Loredana Bertè.

Ivan e i cani”

Il genere è quello dello “story telling”. Cioè il più antico mestiere dei cantastorie. Affabulazione, arte di navigare nel racconto. In Italia da più di venti anni hanno dato l’etichetta probabilmente un po’ impropria di teatro di narrazione e ci sono opere di grandi protagonisti che hanno segnato gli ultimi anni come, tra gli altri Marco Paolini (“Il racconto del Vajont”), Ascanio Celestini (da “Fabbrica” a “Scemo di guerra” al recente “Rumba”) e Marco Baliani (dal capolavoro “Kohlaas” a “Corpo di Stato”). Sono artisti e intellettuali che conoscono e interagiscono con il nostro tempo facendo luce su casi oscuri e portando all’attenzione del grande pubblico storie dimenticate o poco conosciute. Ultima arrivata, ma impostasi con prepotenza in questo tipo di scena è la trentaseienne Federica Roselini che sull’esempio di altri artisti coetanei di mezza Europa ha diverse competenze e padroneggia tecnologie in modo ammirabile. Diplomata alla Scuola del Piccolo di Milano, Roselini, è anche illustratrice, danzatrice e musicista elettronica. Non è un caso che questi strumenti poi li utilizzi assieme per la sua restituzione del libro “Ivan e i cani” di Hattie Naylor (pubblicato in Italia due anni fa da Gabbiani-Edizioni Primavera ). L’avventura sembra provenire direttamente da “Il libro della giungla” e al pari del racconto di Rudyard Kipling incentrato sulla figura di Mowgli -un ragazzo cresciuto dai lupi in una giungla- narra di Ivan, un bambino di quattro anni nella città di Mosca, durante il periodo poverissimo della Russia eltsiniana. Ivan vive in una casa dove la madre è spesso presa a botte dal compagno perennemente ubriaco. Un giorno Ivan scappa e incontra sulla sua strada una muta di cani randagi: gli amati Belka, Vano, Streika, Rusian e Kugya coi quali Ivanscorrazza da un capo all’altro della città, procurandosi il cibo, dormendo e ululando assieme alla luna. L’incontro, l’amicizia e la convivenza con i cani in una Mosca avvolta dal gelo gli salverà la vita (la storia si basa su un autentico fatto di cronaca).

Federica Rosellini nella coinvolgente performance di “Ivan e i cani” dal libro di Hattie Naylor (Foto di Giovanni William Palmisano)

Sul palco, attorniata da computers, sintetizzatori e tastiere Federica Roselini cuce la storia come un radiodramma. Narra di Ivan e delle sue incredibili peripezie nella metropoli degli anni Novanta restituendo colore e rumori d’ambiente, in una ben strutturata partitura musicale dove si alternano voci in russo, canti di nenie, melodie in diretta e la narrazione della performer. Iil tutto è avvincente e permette a chi ascolta di immergersi in una atmosfera favolistica che scalda il cuore.

Molly”

Le tecnologie sono pure al centro di “Molly”, spettacolo del torinese Cubo Teatro. Ma qui non solo come supporto della scena ma anche come i principali indiziati di un crimine. O meglio le tecnologie di riferimento in questo caso sono i social, da Instagram a Pinterest. E’ nella rete che una ragazza inglese di 14 anni, Molly Russel, cercava rifugio quando sentiva dentro di sé il mostro della depressione. Una sera del 2017, dopo aver salutato i genitori, nella sua stanza si toglierà la vita. Nelle prime ricerche emerge l’incredibile flusso di post e ricerche in rete sulle parole suicidio e autolesionismo.Tre anni fa una perizia di un medico legale punta il dito proprio su Instagram e Pinterest e i loro algoritmi come principali responsabili della scomparsa della ragazza. Negli ultimi sei mesi Molly aveva visto oltre duemila post su depressione, autolesionismo etc…

Un’altra immagine della prima nazionale di “Ivan e i cani” con Federica Rosellini dal libro omonimo di Hattie Naylor (Foto di Giovanni William Palmisano)

In scena, una telecamera fissa rimanda su grande schermo l’attrice Letizia Russo seduta davanti ad un tavolo. Viene ripresa e rilanciata in rete come una influencer qualsiasi che mostra e decanta prodotti per la moda e il make up. Così ripercorre i vari step che condurranno la giovane Molly alla tragedia. Disperata love story della adolescente con una ragazza che altro non sarà se non lei stessa che si specchia come Narciso nello stagno oscuro e profondo della Rete. Una dolorosa storia di solitudine che mette in guardia dalle ambigue e pericolose relazioni del web dove, soprattutto i giovani che stanno appena affacciandosi alla vita, sono disarmati. Letizia Russo è distaccata e abile nel racconto che lascia sgomenti e perplessi sul male oscuro del digitale. Sarà forse per quel latente senso del tragico e una ammissione di impotenza davanti al dramma che ha investito una giovane e indifesa ma l’impianto drammaturgico, tra immagini catturate in video e cineprese in motion, rimanda a visioni fredde e asettiche di una impietosa tecnologia.

Alienate”

E’ un po’ il ritorno a casa. Trattasi di teatranti che dopo esperienze lontane dalla propria terra sentono il bisogno di indagare e conoscere meglio le loro radici. La “Primavera”naturalmente accoglie e mette insieme gli spettacoli come pezzi di un mosaico andato in frantumi e tutto da ricomporre. Accade ad esempio nell’ultimo spettacolo della rassegna, “Goodbye Horses” della compagnia Ragli diretta dalla cosentina Dalila Cozzolino,presentato al Teatro Sybaris. Un cabaret surreale che evocando l’antico scontro tra Crotonee l’antica Sibari perde però – tra i suoi siparietti, alcuni pertanto godibili- il centro narrativo, srotolandosi via via tra numeri di cavalli che danzano e guerre perdute.

L’attrice Letizia Russo durante la prima nazionale dello spettacolo “Molly” a cura di Cubo Teatro (Foto Angelo Maggio)

E’ un’attrice originaria di Catanzaro, Francesca Ritrovato che dopo essere fuggita dal Sud, riparando nelle scuole teatrali di Roma e Parigi, frequentazione di Ostermeier etc.. ritrova la strada di casa in occasione dell’anniversario della Legge Basaglia. Qualcosa le muove dentro, lei figlia di psichiatra va a ricercare le storie perdute della sua terra frugando tra le carte del manicomio di Girifalco, suo paese natale. In quegli archivi c’è materia impressionante da scavare e riportare alla luce: “Quell’archivio -racconta l’attrice – raccoglie 1881 fascicoli di individui che spesso nulla avevano a che fare con la psichiatria”. In questo contesto rintraccia e isola sei storie di donne. Sei racconti di vite spezzate. Non distanti e lontane da quanto accaduto altrove. Nel 2019 uscì in Francia “Le bal des folles” primo romanzo di Victoria Mas, un successo letterario (edito in Italia nel 2021 da Edizioni e/o) che racconta di donne dell’Ottocento che decisero di non sottomettersi alle regole della società del tempo e furono abbandonate nel manicomio parigino di Salpetrière. Qui le internate erano affidate alle cure del dottor Charcot che utilizzava l’ipnosi.

Non distanti da queste anche le figure di donna rintracciate e rappresentate da Ritrovato che in “Alienate” propone un viaggio parallelo alla società calabrese e meridionale del tempo, di donne finite dentro quel manicomio simile a un carcere, spesso per risibili motivi. Francesca Ritrovato restituisce in questo modo giustizia e vicinanza a quelle donne escluse.

L’attrice calabrese Francesca Ritrovato in “Alienate” frutto di un lavoro di ricerca sul manicomio di Girifalco (Foto di Angelo Maggio)

Crick

Remake. Da un romanzo di grande successo come “Fiori per Algernon” scritto nel 1960 da Daniel Keys e poi ampliato sei anni dopo (vinse il premio “Nebula”), una storia di fantascienza intrigante. Al centro le vicende di un uomo, Charlie, non molto intelligente che fa le consegne a domicilio per un forno e un topo a cui degli scienziati sono riusciti a potenziare il quoziente intellettuale portandolo a livello degli umani. Charlie subirà gli stessi interventi. Ma allora inizieranno i problemi. Per una breve stagione l’uomo diventerà una sorta di genio ma con il passare del tempo entrerà in depressione. Fuggirà dagli scienziati assieme al topo che subìto un forte declino morirà. Destino parallelo a quello di Charlie. La vicenda sollevò molti interrogativi sulla manipolazione delle cavie e delle persone con deficit intellettuale. Ebbe numerosi adattamenti teatrali, televisivi e ben due film. Il primo, “Due mondi per Charly” di Ralph Nelson risale al 1968 che fece conquistare all’interprete principale Cliff Robertson l’Oscar come migliore protagonista. L’altro, del 2000, film per la tivù diretto da Jeff Bleckner e Matthew Modine come protagonista si intitolò “Un cuore semplice”.

Con il titolo “Effetto C.C. (il topolino Crick)” debuttò nell’aprile del 1987 lo spettacolo scritto assieme a Melina Formicola dal compianto Francesco Silvestri, uno dei protagonisti della nuova stagione teatrale partenopea dei vari Ruccello e Moscato. Silvestri ambienta a Napoli il caso del “miglioramento di intelligenza” facendo vestire i panni dell’eroe da Antonio Cafiero, un ritardato addetto alle pulizie con problemi cognitivi. Al centro della riscrittura, oltre a Cafiero e il topolino Crick, anche il dottore che segue gli esperimenti. In scena si vedono i risultati dei miglioramenti fino al raggiungimento di un quoziente intellettuale altissimo e poi, via via, il successivo degrado. Questo è l’impianto rispettato fedelmente da “Crick” andato in scena a Castrovillari con la regia di Rosario Sparno e l’interpretazione di uno straordinario Luca Iervolino nel ruolo protagonista e di Francesco Roccasecca in quelli del dottore. La regia di Sarno è asciutta ed essenziale e si concentra essenzialmente su Cafiero, eroe suo malgrado di una scienza matrigna. Iervolino naviga tra lucidità e straniamento in un ambiente impersonale fatto di pannelli con oblò da cui ogni tanto fanno capolino dei video. Una scenografia essenziale un po’ datata da prima tivù a colori, pensata forse in sintonia con l’origine del romanzo collocato in pieni anni Sessanta.

Luca Iervolino e Francesco Roccaseccaal debutto nazionale di “Crick” di Francesco Silvestri alla “Primavera dei Teatri” (Foto Angelo Maggio)

A questo proposito, chi scrive ha avuto modo di vedere, oltre due anni fa, per quanto riguarda il rapporto tra scena e tecnologia, un allestimento convincente e decisamente in sintonia con la contemporaneità: si tratta di “Fiori per “ del Kyberteatro con la regia ispirata di Nina Ilaria Zedda e l’interpretazione rimarchevole di Riccardo Lai.L’allestimento di questa compagnia, che riscrive in modo dialettico la relazione tra scenografia e momento performativo ha la capacità di posizionare una lente di ingrandimento sulle relazioni che “regolano scienza e realtà attivando attimi di luce alternati a black out che danno corpo a inquietanti interrogativi sulla nostra stessa esistenza”.

Incontro”

Lo spettacolo in prima nazionale del Collettivo napoletano di LunAzione punta drammaticamente al cuore di una società allo sbando, accendendo i riflettori su malessere, criminalità e uno Stato lontano, praticamente inesistente. Vite alla deriva. Vite perdute. Ma c’è anche voglia di riscatto e di scontrarsi con una realtà maligna. Soggetto e regia sono di Eduardo di Pietro. Sulla scena è un corpo a corpo segnato dalla rabbia e dalla paura di due giovani provenienti da ceti sociali differenti, entrambi segnati dalla morte di un fratello. Il primo, ucciso probabilmente per errore, il secondo forse per un regolamento di conti. Ad interpretarli sono Federica Carruba Toscano, attrice con un solido background, l’altro, Lorenzo Izzo, è invece una promettente new entry. I due si incontrano in una scuola dove la prima va a raccontare il dramma di una sorella che un giorno perde il fratello amato senza un perché. L’altro, più giovane, anch’egli privato della presenza del fratello maggiore ha nel cuore solo l’idea di vendicarsi. L’incontro produce scintille, solletica lo scontro. In questo emergono le differenze di classe e le condizioni di abbandono di molte realtà metropolitane meridionali dove spesso il malaffare e lo spaccio sono per diversi giovani l’unica alternativa. Federica Carruba Toscano e Lorenzo Izzo ci mettono il cuore e trasmettono con forza l’ansia e la rabbia di chi esige un mondo migliore senza ammazzamenti e vendette. Anche se lo spettacolo, sul piano drammaturgico traballa e sembra partire per tangenti poco chiare resta una bella prova di attori che, mostrando il grado zero della sofferenza animano domande e quesiti, sollecitando quelle risposte che non sono ancora arrivate e forse mai arriveranno.

Federica Carruba Toscano e Lorenzo Izzo di Lunazione nella prima nazione di “Incontro” di Eduardo Di Pietro a Castrovillari (foto Angelo Maggio)

Emma B. Vedova Giocasta- Rito funebre e amoroso”

Marco Sgrosso affronta il testo di Alberto Savinio en travesti, avvolto da gonne lunghe e scure di seta frusciante regalando, nello spettacolo in prima nazionale, una straordinaria prova d’attore.

Una lettera annuncia il ritorno a casa, quindici anni dopo, dell’amato figlio e qui, tra un tumultuoso riemergere dei ricordi nella mente di Giocasta prende forma una strategia per riconquistare “l’unico vero uomo” della sua vita… Madre allo specchio, tra ninnoli, fotografie e valigia dei ricordi che custodisce persino l’abito alla marinara di quando il figlio aveva tre anni. Musiche decadenti e brani nostalgici come “La mia solitudine” per esorcizzare l’evento annunciato, mentre sul volto si disegnano espressioni soddisfatte e ambigue protette da un buio di scena che sembra evocare il tempo perduto. E quello ricordato. Quando gli agenti dell’Ovra perquisirono la casa alla ricerca del figlio e lei lo nascose dietro la porta del suo bagno. Marco Sgrosso dà sostanza e profondità al personaggio descritto dal genialeSavinio, intellettuale e artista che ha avuto il coraggio di ridicolizzare con l’arma dell’ironia l’Italietta bigotta e piccolo borghese del periodo fascista. Di quell’epoca Savinio ne indica implacabile i vizi e le menzogne mostrando il re nudo, iniziando dalle relazioni ipocrite delle famiglie borghesi. Così testimonia proprio questa magnifica “Emma B. vedova Giocasta” che al centro narrativo ha il rapporto tra madre e figlio con il suo andare oltre, dissacrante e definitivo. Sgrosso è in questo un mirabile interprete che, nella sua ambiguità “en travesti”, fa volare in alto lo sguardo ironico di quello che fu uno dei migliori intellettuali, e artisti del nostro Novecento. Una magistrale interpretazione sul solco della tradizione del grande attore quale Marco Sgrosso è. Senza orpelli ma con un alto senso della poesia.

L’attore Marco Sgrosso al debutto nazionale di “Emma B. Vedova Giocasta” di Alberto Savinio a Castrovillari (Foto Angelo Maggio)

Cari Spettatori”

Nasce da una vicenda autentica. Gino e Arturo, usciti da una comunità psichiatrica vanno a vivere sotto lo stesso tetto, in un appartamento messo a disposizione dalla Caritas. Qui inizia il cammino di reinserimento nella società e nella vita di tutti i giorni di due persone che sono e rimangono fragili. Desideri e sogni, proiettati dal loro inconscio scandiscono il consumo di tempo in un ambiente di scostante quotidianità dove i vissuti si sfiorano, le persone si ignorano e al fondo resta una confusa idea di anelata liberazione. Uomini sul confine che hanno paura di vivere, fotografati “nel mezzo del cammin” in “Cari Spettatori”, allestimento in prima nazionale che segna il ritorno in scena di un maestro come Danio Manfredini. Stavolta, forse per la prima volta, nelle vesti di autore e regista. Anche se l’allestimento in ogni istante porta come stimmate il segno poetico del geniale teatrante di capolavori indimenticabili quali “Miracolo della rosa”, “Cinema cielo”, i “Tre studi per una crocefissione”. Gino e Arturo, interpretati da due splendidi attori come Vincenzo Del Prete e Giuseppe Semeraro vivono la quotidianità tra le pareti alte e grigie di una stanza, due brande e un monitor tivù che ritrasmette in loop le sedute della loro comunità. Gino coltiva sogni di drammaturgo e regista ideando copioni su copioni, dalle rivoluzioni alla tecnologia che comanderà l’uomo. Non vede “l’ora di pubblicare il mio copione e diventare famoso”. Con questa e altre simili uscite fa capolino nella stanza avvolto in un accappatoio, bandana e occhiali da sole.

L’altro, Arturo, più rasoterra sogna una casa normale, magari una di quelle popolari da condividere con la persona che ama. I loro dialoghi come i monologhi sono spesso intervallati da osservazioni e richieste anche paradossali:“Ho bisogno urgente di parlare con il Papa”… oppure “I preti? Sono degli attori nati!”.

Vincenzo del Prete e Giuseppe Semeraro in “Cari spettatori” di Danio Manfredini in prima nazionale a Castrovillari (Foto Angelo Maggio)

Certo, nella nuova situazione simile ad un limbo potrebbero in teoria essere anche liberi “Ma liberi per fare cosa? Di finire barbone alla Stazione Centrale?” si interroga Arturo. Gino e Arturo sono due clown beckettiani che non riescono a vedere la fine o un nuovo inizio e continuano ad ondeggiare in una terra di nessuno percependo persino, come in una pièce di Pinter, la minaccia del mondo che sta fuori dalla loro stanza, e da dove escono giusto il tempo per fare la spesa o comprare un pacchetto di sigarette. E poi tornare. Aspettando la vita.

Italianesi”

Saverio La Ruina, dopo l’avvincente allestimento del 2011 con cui portò all’attenzione pubblica il problema degli italiani d’Albania, cioè i figli di quei militari rimasti intrappolati nel Paese alla fine del secondo conflitto mondiale, ha raccolto appunti di viaggio e messo insieme con nuove scene e immagini una pellicola battezzata come lo spettacolo teatrale, restando tra documentario e teatro una delle più palpitanti testimonianze, in gran parte inedite, di quel dramma. Erano inizialmente ben 25 mila quei militari. In tanti furono rimpatriati ma una parte rimase bloccata nel Paese delle Aquile fino alla scomparsa del dittatore Enver Hoxha. Tra questi c’è Pierino Cieno che, con la memoria e i ricordi aiuterà La Ruina a ricostruire un racconto che resta a metà strada tra il documentario etnografico e il reportage con una innegabile aureola teatrale. Il film è soprattutto un viaggio a caccia dei segni del passato. Cieno è uno dei tanti figli di padre italiano e madre albanese. Fu internato nei campi di Belsh e Saver. Quando cadrà il regime riuscirà a mettere piede in Italia e cercare il padre. Come Pierino Cieno altri connazionali, circa quattrocento, vennero poi rimpatriati. Anche se porteranno a lungo il nome di “Italianesi”, cioè Italiani in Albania e Albanesi in Italia. Per capire la difficoltà di inserirsi e vivere con equilibrio le due patrie. In questo Saverio La Ruina ha costruito un tassello determinante per conoscere la storia del Bel Paese.

La locandina del film di Saverio La Ruina “Italianesi” proiettato durante il festival di”Primavera dei Teatri” (Foto Angelo Maggio)

La Ferocia in pochi attimi”

C’è qualcosa di non finito nella singolare e originale mostra di disegni e tecniche miste del critico Renzo Francabandera che si è potuta visitare nei giorni del festival della “Primavera dei teatri” in una sala del Protoconvento. Esposizione fortemente concettuale di lavori che sono in parte appunti in presa diretta, un modo unico di tenere a memoria impressioni e passaggi di uno spettacolo che, a ben guardare, rivelano già, anche se in modo criptico, la linea di lettura e decodificazione. Sono ritratti in primo piano di attori come immagini a tutto campo della scena reinterpretata da un artista visivo che è anche critico teatrale. Una bella e stimolante chiave di lettura per opere e drammi. Dove la sensazione del non finito è assolutamente attigua alla visione teatrale. Fatta di visioni folgoranti come strisce decise di colore o riflessioni filosofiche astratte che fluttuano libere nell’aria.

La mostra del critico e artista visivo Renzo Francabandera “La Ferocia in pochi attimi” durante la rassegna di Castrovillari (Foto Alessandro Vitali)

 

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