Eventi
Su “Il Sessantotto e noi” di Romano Luperini e Beppe Corlito
Il Sessantotto ha prodotto memorie divise nei suoi protagonisti e interpretazioni storiche disparate, a volte reticenti. C’è chi vi ha visto l’espressione di una crisi di civiltà della società occidentale, chi una rivolta tutta morale, chi un tentativo di fuga irrazionale, chi l’atto di nascita, sotto una superficie rivoluzionaria, dell’individualismo che ha dominato nei decenni successivi.
Ne «L’anno degli studenti», scritto proprio nel 1968, Rossana Rossanda parlò di un grandioso e anomalo moto politico, che in Germania aveva spinto i giovani a rifiutare il passato nazista della generazione precedente, in Francia aveva contagiato anche gli operai e in Italia, con l’autunno caldo del ’69 operaio, aveva aperto una profonda crisi nei partiti di sinistra, ormai in declino e privi di una strategia alternativa.
Molte interpretazioni hanno insistito sull’ambivalenza di quella rivolta degli studenti. Per Peppino Ortoleva e Luisa Passerini, ad esempio, il Sessantotto fu, sì, un «momento di svolta nella storia del dopoguerra», ma oscillò inconcludente tra esaltazione dell’«immaginazione al potere» e nostalgia per le rivoluzioni del passato (la Comune di Parigi del 1871, l’Ottobre sovietico del 1917). E vanno ricordati pure i giudizi severi dati da storici come Eric Hobsbawm, che parlò di un rinnovamento della cultura ma ridotto in fin dei conti ai giovani del ceto medio, un settore minoritario della popolazione. O Guido Crainz: «un misto fra l’ultima rivoluzione del XX secolo e un movimento nuovo, inedito che poneva i problemi della fine del XX secolo». Oppure Paul Ginsborg: una «modernizzazione» dei costumi ma incompleta, per l’incapacità di costruire alternative credibili al consumismo capitalista e alla «famiglia-tana».
Il Sessantotto e noi. Testimonianze a due voci di Romano Luperini e Beppe Corlito, pubblicato di recente (ottobre 2024) dall’editore Castelvecchi, torna a riflettere su quell’evento in un volumetto di circa 160 pagine, che raccoglie il risultato di una conversazione tra i due autori, svoltasi tra 2022 e 2023 e qui suddivisa in tre parti.
La prima tratta le questioni dell’unità o pluralità del Sessantotto come fenomeno globale, planetario; delle sue cause e dei suoi inizi; del Sessantotto italiano “lungo” (rispetto a quello francese).
La seconda esamina i temi dell’assemblea, dell’organizzazione e della democrazia diretta; della militanza; della corporeità, sessualità e questione femminile; della cultura del Sessantotto; della violenza, del terrorismo e dell’omicidio Calabresi; del rapporto tra Sessantotto e tradizione comunista; della democrazia e della rivoluzione; del fascismo e dell’antifascismo.
La terza (Conclusioni) tocca gli aspetti del Sessantotto ritenuti ancora attuali.
Il libro è di agevole lettura e ripercorre con un linguaggio chiaro, mai enfatico o apologetico, i fatti e le principali interpretazioni del Sessantotto. I lettori d’oggi – quelli che al Sessantotto parteciparono o che ne hanno sentito parlare – di quell’anno straordinario, in cui, come dicono gli autori, sembrò che «tutto il mondo fosse giovane», troveranno cenni curiosi e forse nostalgici alle icone di allora (i libri della serie bianca col quadratino rosso della Einaudi, l’eskimo, il cappotto di cammello dell’editore Feltrinelli) e ragionamenti: sulla varietà del fenomeno (i vari ‘68: degli studenti universitari, degli studenti medi), sul legame con la Resistenza (tesi dello storico Guido Quazza), sul riferimento alla rivoluzione culturale cinese, sulla contestazione della cultura e dei saperi, sulla ripresa dell’idea di una rivoluzione permanente, sulle lotte dentro/contro le istituzioni o lo sfruttamento in fabbrica o per il superamento dei manicomi e della «famiglia che uccide».
Luperini e Corlito notano la differenza tra i costumi studenteschi precedenti, gerarchici e individualisti (la goliardia, il “farci la matricola”) e la capacità di «un’intera generazione [di muoversi] tutta insieme». Indicano pure le fonti politiche del Sessantotto: l’esperienza della rivista «Quaderni Rossi», il pensiero di Raniero Panzieri , l’inchiesta del CUB Borletti di Milano, le Tesi della Sapienza di Pisa (1967), prima formulazione dell’idea degli studenti come «forza lavoro in formazione» e «embrione del sindacato studentesco». E non mancano i ricordi più personali di un Sessantotto pisano: la lotta dei fuori sede, il comizio fatto dal leader locale degli studenti assieme al responsabile del consiglio di fabbrica della Piaggio o l’accenno al «disagio di vivere poveramente» che smentisce il cliché del Sessantotto dei “figli di papà” o la sottolineatura (non secondaria) che «la nostra rabbia aveva una base materiale».
È nelle Conclusioni che troviamo, però, il messaggio politico – «una sorta di testamento rivolto al futuro» –, che può essere riassunto nella scelta di un valore: il pacifismo alla Gandhi e nell’indicazione di Democrazia Proletaria come modello politico positivo di partito, che avrebbe potuto/dovuto raccogliere «unitariamente il meglio della nuova sinistra», evitando sia l’anarchismo spontaneistico (in particolare di Lotta Continua, accusata per la sua gestione del servizio d’ordine in risposta alle aggressioni fascite e poliziesche) e e sia il vicolo cieco del modello cospirativo terzinternazionalista delle Brigate Rosse.
Per Luperini e Corlito il Sessantotto resta «uno spartiacque per cui nulla di quanto esisteva prima è potuto essere uguale, dopo». E, di vivo e attuale, ha lasciato l’idea della «lunga marcia attraverso le istituzioni» di Rudi Dutschke, leader del movimento studentesco in Germania. Che, corretta da alcuni residui di spontaneismo,1 sarebbe ancora oggi l’«unico modello di una possibile rivoluzione socialista in Occidente».
Nei cinque decennali intercorsi dal Sessantotto sono circolati numerosi articoli commemorativi, oscillanti per lo più tra apologia e denigrazione, ma anche studi apprezzabili. Si pensi a I movimenti del ’68 in Europa e in America di Peppino Ortoleva (1998), ad alcuni saggi contenuti nei 12 fascicoli dello speciale del manifesto sul 1968, pubblicati nel ventennale (1988). Meno noto forse, ma notevole per l’approfondimento dei temi, è Figure e interpreti del Sessantotto. Ciclo di incontri, cinquant’anni dopo, una serie di conferenze organizzate dalla Fondazione Luigi Micheletti di Brescia (2018) ora su You Tube.2
Cosa aggiunge a tanti discorsi e studi il libro di Luperini e Corlito? Ben poco a mio parere. Il tentativo di uscire dalle ambivalenze del Sessantotto e di salvarne un insegnamento “attuale” mi appare unilaterale e inadeguato di fronte a questo presente di guerre, massacri, impoverimento e smarrimento politico e morale.
Unilaterale, perché scelgono un discutibile “pezzo buono” del Sessantotto da contrappore a un “pezzo cattivo”, ripetendo il refrain sul fallimento e sull’improponibilità della «modalità della presa del palazzo d’inverno, perché la moderna società borghese [è] molto più complessa di quella russa degli inizi del Novecento»; occultando così che tale indubbia complessità resta tuttavia il “guanto di velluto”, che copre il “pugno di ferro” del potere capitalistico, diventato sempre più minaccioso e più tecnologicamente repressivo.
Inadeguato ai problemi del presente, perché Luperini e Corlito, pur sottraendosi alla semplicistica interpretazione, oggi divenuta di moda, di un Sessantotto come «modernizzazione dei costumi»,3 sorvolano su due fatti: – decennale dopo decennale e non per caso, il mito del Sessantotto alla Mario Capanna (Formidabili quegli anni) è andato svanendo; – i tratti di continuità con la situazione precedente sono diventati sempre più evidenti, essendosi affermati rapporti sociali paurosamente più ineguali rispetto a prima. Tanto che il Sessantotto, se non una “ricreazione” (alla Cossiga), può essere a ragione considerato una semplice parentesi e non più «uno spartiacque per cui nulla di quanto esisteva prima è potuto essere uguale, dopo».
È, inoltre, davvero ingeneroso imputare il fallimento del Sessantotto soprattutto o esclusivamente alla «eredità politica, culturale e organizzativa della Terza Internazionale» e al modello della «presa del palazzo d’inverno». Se la crisi della democrazia ha potuto raggiungere lo stadio agonico di oggi, come non vedere che vi hanno contribuito anche quelli hanno pensato di poter contrastare quella crisi con la «lunga marcia attraverso le istituzioni»?
La storia del PCI, tra l’altro, lo dimostra. Essa, in effetti, può ben essere considerata una prima, prolungata e fallimentare «lunga marcia attraverso le istituzioni». E non solo non ha portato al governo quel partito ma l’ha logorato e disfatto. Ad analogo fallimento è andata incontro anche la seconda, seppur più breve marcia nelle istituzioni, della nuova sinistra e in particolare, di Democrazia Proletaria.
In una situazione, che al momento ha seppellito la prospettiva emancipante del conflitto capitale-lavoro sostituendola con quella di uno scontro tra superpotenza imperiale USA declinante e potenze emergenti, un modello di pensiero e azione politica all’altezza dei problemi d’oggi nascerà forse da ragionamenti più coraggiosi e drastici (al momento inesistenti), che ammettano il fallimento sia della «modalità della presa del palazzo d’inverno» e sia dell’ipotesi della «lunga marcia attraverso le istituzioni». Non sarebbe un ripartire da zero ma dalla realtà della sconfitta del Sessantotto. Perciò, preferisco un compianto sul Sessantotto come occasione storica totalmente perduta.
Note
1 Luperini e Corlito si rifanno all’ipotesi dello statunitense Luther P. Gerlach, teorico di una organizzazione a «struttura reticolare» dei movimenti policefali, reticolari, senza una leadership unitaria, che giudicano positivamente intermedia rispetto alle ipotesi spontaneistiche e leninistiche che vennero proposte nel Sessantotto.
2 https://www.fondazionemicheletti.eu/sessantotto/
3 Ancora oggi ripresa da Guido Mazzoni: Senza riparo. Sei tentativi di leggere il presente https://www.leparoleelecose.it/senza-riparo-sei-tentativi-di-leggere-il-presente/
Devi fare login per commentare
Accedi