Letteratura
Giuseppe Todisco, “Cafarnao”
Con uno stile che è “luce e rame”, fatto di chiare parole che scavano nella realtà dura del presente, G. Todisco “si addentra nella macchia” delle nostre esistenze, delle nostre coscienze, alla scoperta di quel “refe azzurro che ci tiene”.
Quel po’ di luce e rame
che mi è dato di scrivere
(G. Todisco)
“La poesia vuole andare verso l’Altro, ha bisogno dell’Altro, ha bisogno di un interlocutore. Lo cerca, gli si rivolge” diceva Cioran (1), poeta e intellettuale di cui si sente l’impronta in Cafarnao.
Giuseppe Todisco all’Altro si rivolge con tono allocutivo: si tratta di un “tu” chiamato in causa (“resta un poco con me, sotto le querce di Mamre”, Ricorda quel giorno a Ebron) eppure sempre sfuggente (Te ne vai col sole oltre la casa). Lascia soltanto buio, solitudine (“oltre il Giordano, sulla via del mare, non si è più fatta luce”, Cafarnao), nel pesante vuoto di un’esistenza senza orizzonti di senso: (“è tutta mia questa moltitudine di giorni da colmare”, Sentire un peso). In Intanto il cielo più fitto ritira, l’Altro è chi non comprende l’ansia di verità che tormenta l’io lirico (“forse ti sfugge”). Caduta “l’elica del sogno”, cancellati desideri e speranze, quello che resta è un “cielo venuto male” (La volta che sconfissi nostro padre), il deserto dell’incomunicabilità.
Se, poi, l’Altro è Dio, è un Dio che conosce destini imperscrutabili e dolorosi (“tu vieni a catastrofe” in Cafarnao); è un Dio che abbandona; secondo Todisco, è assenza, lontananza estrema, in un mondo in cui “il diavolo ci ha presi al cuore” (La volta che sconfissi nostro padre). È un Dio impotente rispetto all’ineludibile male in cui siamo immersi (“passi anche per noi questo calice”, in Il sole Franco la mattina presto).
Forse Dio – come dice Cioran citato in epigrafe della silloge Cafarnao – è Nessuno, se in lui si cercano le risposte definitive e le verità ultime. È l’insufficienza che non riesce a dare corpo alla speranza e lascia il mondo nell’ombra: “il maltempo agglutina nell’orto/grugnisce il tuono” (Passato via tutto il trambusto). Il poeta è condannato alla scissione interiore (“vita mia divisa”, in Passato via tutto il trambusto) tra la tensione verso un Dio che vorrebbe accogliente (“potessi…chiudermi a covo tra le tue/braccia”, in Sarebbe stato bene agli occhi), capace di dare senso all’esistenza, una luce che rischiari l’andare, e d’altra parte la delusione, la certezza del fatto che “il morire lo impari/da piccolo” (Speravo vivere fosse) e che il dolore è la categoria dell’esistenza, di ogni esistenza: “l’ombra/compie il suo destino” (Speravo vivere fosse). E forse la sola speranza è quella “di finire” (Tra i fossi e le immondizie).
Cafarnao invita a ripensare Dio, a ipotizzare una sua κένωσις (kénosis), un abbassamento che è nello stesso tempo un avvicinamento all’essere umano: “così girato, santifica la tela” del mondo. È un Dio diverso, quello immaginato da G. Todisco , un Dio che “si è fatto malva” e che non disdegna di aggirarsi Tra i fossi e le immondizie. Il sacro è nelle cose umili o anche degradate, spesso sdegnate dai Soloni della Teologia. Come Saba, anche Todisco ritrova “l’infinito nell’umiltà” e sente la sacralità “dove più turpe è la via”. Anche un nugolo di mosche può diventare “barlume”, se suggerisce la fine di un dolore o se evoca la morte come liberazione dalla sofferenza.
I versi di G. Todisco senza dubbio danno voce a un profondo pessimismo, al contrasto tra l’instabilità di un’esistenza con scarsi punti di riferimento e d’altra parte il bisogno urgente di una connessione. Eppure il pessimismo non sfocia mai in nichilismo o passività.
“Si può compiere il miracolo” (La volta che sconfissi nostro padre): nella poesia di Todisco c’è spazio per il prodigio – Montale avrebbe parlato di un varco – anche “se in cielo azzima la notte”. Il desiderio di un’alternativa possibile non è del tutto azzerato. Da Dante (Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io) Todisco mutua l’uso lirico dell’ottativo vorrei in Vorrei mi parlassi del fiore, per esprimere il bisogno profondo che vive in ogni essere umano: il desiderio di bellezza, pur nella consapevolezza della sua caducità e fragilità (il “fiore reciso”); l’aspirazione a volare alto – l’elevazione di cui parlava Baudelaire – e a seguire ideali capaci di sottrarci alla mediocrità diffusa (“rondini e nuvoli”); la forza di credere nella parola che unisce (“vorrei mi parlassi”), la speranza – forse utopica oggi che le guerre ci incalzano – che “un solo cielo” possa “volerci tutti” (Dire all’acqua acqua); la voglia di scavare come fa la formica (Dire all’acqua acqua), di andare a fondo, alla ricerca di verità nascoste nelle pieghe del quotidiano dove forse si annida l’essenza delle cose e del nostro stare al mondo.
Nonostante i “graffi” di cui è fatta la vita, gli oltraggi alla bellezza (“la mano a sfascio sulle rose” in Vieni – tra l’occipite e il sonno –), è possibile resistere alla tentazione del nulla, è possibile recuperare la solidità degli ulivi e “sentire che risale” quella forza capace di risvegliare ideali indeboliti da un presente oscuro, e che invece, come “una stella, la prima luce sul selciato”, un “lampo”, risorgono per dare forma persino allo “scisto”, alla materia inerte di anonime masse passive, per troppo tempo abituate a subire un’esistenza senza slanci e senza sogni. Resistere: sarà possibile allora un’umanità nuova, pronta a rialzarsi come la Talita del Vangelo di Marco e a brillare come fanno le lucciole nel buio della storia (Rendi al cielo ciò che del cielo già sarebbe).
I miracoli che Cafarnao evoca non sono opera di un Dio trascendente né l’effetto di un abbandono mistico a verità oracolari. Sono piuttosto i prodigi che l’umanità può compiere se resta fedele al suo mandato: homo homini deus est, si suum officium sciat (2), scriveva Cecilio Stazio. Il prodigio sarà allora nel portare a compimento la nostra natura umana, nel saper restare umani fino in fondo e senza limiti – mai – per abbracciare con amore “tutto l’azzurro clamore del cielo”.
Con uno stile che è “luce e rame” (Quel po’ di luce e rame), fatto di chiare parole che scavano nella realtà dura del presente, G. Todisco “si addentra nella macchia” (Esci dalla parola) delle nostre esistenze, delle nostre coscienze, alla scoperta di quel “refe azzurro che ci tiene” (Da qui in alto).
1 – E. Cioran, discorso di ringraziamento in occasione del premio Büchner, 1960 in https://www.succedeoggi.it/2020/04/le-lotte-di-celan/
2- L’uomo è un dio per l’altro uomo, se conosce il proprio dovere.
Giuseppe Todisco, Cafarnao, AnimaMundi, 2024
Per una breve selezione di testi della raccolta Cafarnao cfr. https://www.leparoleelecose.it/cafarnao/
Devi fare login per commentare
Accedi