Letteratura

Intervista a Michele Ruol, finalista allo Strega 2025 con Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia

Abbiamo intervistato Michele Ruol, finalista al Premio Strega con il suo romanzo “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia”

1 Agosto 2025

Michele Ruol ha scritto un romanzo molto coraggioso. Il suo ‘Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia‘, edito da TerraRossa Edizioni, racconta uno dei dolori più profondi che un adulto può affrontare. E lo fa con una precisione di linguaggio ammirevole. Si è imposto al Premio Strega 2025 arrivando nella cinquina finale, risultato non da poco per uno scrittore al suo esordio nella narrativa. Walter Veltroni, nel proporlo per il Premio Strega, ha detto: «Per la prima volta segnalo un romanzo ai giurati del Premio Strega. Lo faccio, in primo luogo, per condividere con loro l’emozione che ho provato nel leggere le pagine di Michele Ruol. Il romanzo è il racconto del vuoto lasciato nella vita di due genitori, Padre e Madre, dalla morte improvvisa dei loro due figli, Maggiore e Minore. Tutto, in un istante, cambia senso e direzione, perde peso, si fa vuoto, puro vuoto. Ruol racconta questa deflagrazione attraverso le cose, gli spazi, gli oggetti, i momenti, i movimenti. Una scrittura asciutta rende ancora più intensa l‘emozione che si prova nel leggere le pagine di questo inventario di una vita, dopo il più devastante degli incendi». Il suo romanzo sta per essere tradotto in francese, sloveno, spagnolo e serbo. Ho intervistato Michele Ruol sul suo libro per gli Stati Generali.

Il tuo romanzo colpisce già dal titolo, fatto di un lungo periodo articolato che lascia già intendere qualcosa della sua sorprendente struttura. Puoi raccontarci le genesi del titolo?

Il titolo racconta le due anime del romanzo. ‘Inventario fa riferimento al fatto che è costruito come inventario di oggetti. La ‘foresta che brucia’ fa riferimento alla foresta metaforica, ma anche alla foresta per come emerge dalla narrazione, quindi come elemento fortemente legato all’incidente dei figli. Inizialmente mi sono chiesto se non fosse troppo lungo. Poi mi sono detto che pur nella sua lunghezza raccontava qualcosa della complessità della narrazione.

Con ‘Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia’, tuo romanzo d’esordio, ti sei affermato all’ultimo Premio Strega. Prima della cinquina finale, per cui ti meriti i complimenti, e dopo la candidatura dal premio da parte di Walter Veltroni, cosa ha significato l’esperienza del Premio Strega per te?

Il premio Strega è stata un’avventura incredibile e inattesa. A me sembrava già tanto aver ricevuto la candidatura da parte di Walter Veltroni ed essere così tra gli ottanta autori proposti. Arrivare nella dozzina e poi nella cinquina finale ha superato tutte le mie aspettative. Partecipare al giro di presentazioni organizzate per il Premio Strega mi ha offerto un sacco di stimoli, dandomi la possibilità di entrare in contatto a livello nazionale con un sacco di persone interessanti. Facendo un’altra professione, lavoro nell’ambito medico, fino allo Strega i miei giri letterari si erano limitati , soprattutto per motivi di tempo e turni lavorativi, solo al nord-est d’Italia.

Veniamo al libro: un romanzo dallo stile chirurgico e sapiente. Un insieme di tantissime fotografie che fanno una storia. Il titolo di ogni capitolo è un particolare di casa, un oggetto: fai guardare il lettore lì per portarlo altrove. Quali sono i tuoi riferimenti letterari più recenti?

Tu parli di fotografie, ed è vero. Il mio romanzo è costruito secondo varie micro-narrazioni. I miei riferimenti letterari sono molteplici. A cominciare da Agota Kristof, scrittrice e drammaturga ungherese che ha saputo portare l’esercizio della brevità nella scrittura ai massimi livelli. Poi potrei citare anche Richard Yates, Dino Buzzati, Italo Calvino e Goffredo Parise.

La storia che racconti è drammatica, perché è la storia che nessun genitore vorrebbe dover mai affrontare. D’altronde uno dei compiti della letteratura è quello di raccontarci anche le verità più scomode. Perché come romanzo d’esordio hai scelto una storia del genere?

La mia intenzione, nello scrivere questo romanzo, è stata quella di cercare di uscire da ciò che mi rassicurava, provando a cercare risposte in un territorio in cui risposte non ne avevo. In parte mi ha contaminato molto l’ambiente professionale che frequento. Sono un medico anestesista e spesso, davanti a ciò che affronto ogni giorno, sono portato a chiedermi che senso possiamo dare al dolore e alla malattia. Sono anche un genitore e mi sono reso conto che diventare genitore mi ha aperto gli occhi sul senso di responsabilità che nutriamo nei confronti dei nostri figli.

Un elemento allo stesso tempo molto curioso e significativamente moderno è quello di come nomini i personaggi principali del tuo libro: non ci sono nomi, ce li presenti solo come Madre, Padre, Maggiore e Minore. E’ una scelta che hai preso fin dall’inizio oppure è evoluta nel corso della stesura del libro?

I nomi dei personaggi principali fin dall’inizio sono stati così. Provenendo dalla scrittura teatrale mi è tornato naturale identificare i personaggi con un canone generico. Nella drammaturgia i personaggi sono identificati dal loro ruolo. Andando avanti nella scrittura mi sono reso conto che i nomi spogli, quelli che avevo scelto, mi davano qualcosa in più, avendo una loro universalità. Nel romanzo, nel finale, il ruolo dei genitori va in cortocircuito. E questo può avvenire proprio perché ha fatto utilizzo di nomi che richiamano l’universalità del loro ruolo.

Il finale del libro è bellissimo, lirico e pieno di speranza allo stesso tempo. Racconta una forma di redenzione di Padre e Madre, una pace ritrovata. Molti romanzi nel finale, a mio parere, rischiano di perdersi. Il tuo no, riuscendo a mantenere altissima la tensione fino all’ultima pagina. Cosa ti porti dietro del tuo romanzo?

Più volte, essendo davanti a un romanzo che racconta di un dolore molto forte particolare, mi sono chiesto come avrebbe reagito il lettore ai fatti che avevo avevo deciso di raccontare. C’era una luce che potevo lasciare filtrare? Esisteva una qualche forma di redenzione per quel dolore che avevo deciso di raccontare fino in fondo? Leggendo vari messaggi di chi aveva letto il libro ho compreso che in fondo ero riuscito a dare forma a una speranza. E tutto questo è stato per me un calore inatteso.

Giovanni Turi con TerreRossa edizioni è l’editore di questo tuo primo romanzo. Un nome che si sta facendo sentire nel panorama editoriale nazionale per la qualità dei libri proposti. Per il tuo libro si parla già di traduzioni in varie lingue. Cosa consiglieresti a un esordiente che volesse provare a proporre un suo romanzo a un editore come TerraRossa?

Giovanni Turi ha fatto una lavoro splendido. Fin dalla prima stesura la squadra di TerraRossa edizioni ha lavorato con entusiasmo e professionalità al testo. Il consiglio che mi sentirei di dare a chi volesse proporre un proprio romanzo a TerraRossa è quello di vedere bene il catalogo dei libri già pubblicati. Sono tutti titoli con una caratterizzazione specifica, hanno un comune sia la sperimentazione che la ricerca linguistica. TerraRossa è un editore indipendente, punta molto sulla qualità e la ricerca. Pubblica circa cinque libri l’anno. Per intraprendere un percorso con loro serve sicuramente pazienza perché i titoli pubblicati sono pochi.

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