Letteratura
La vita potenziale di Lavinia Bianca
Sesso e internet nella Roma delle professioni in un romanzo d’esordio.
Lavinia Bianca, La vita potenziale, Gramma Feltrinelli, 2025, pp. 224, 18€.
La prima nota che prendo è: prosa ironica, paradossale, condotta sul filo dell’esagerazione, e ricca di lessico e immaginazione. In genere è il tono di chi non è passivamente insediato nella vita e ha più opzioni verbali da offrirle. Un disagio che si esprime per verboso allagamento elocutivo. Ma si tratta di una verbosità ispirata, magniloquente, spia di un disagio, tipico di chi ha più parole e quindi angoli di rifrazione rispetto alla anodina, fattuale e frontale realtà. E qualche disagio di fronte a essa.
La rivelazione giunge alle prime battute: «Una depressione infantile, intorno ai nove anni, e un paio di episodi di depressione maggiore, a vent’anni e poi a trenta». Ma non solo questo, occorre andare oltre: il disagio psichico è solo accennato rispetto ad altre urgenze interiori.
Il sesso è qui infatti l’apparente materia prima di costruzione della narrazione. Certo il sesso “per sé”, nella sua cosalità, ma “in sé” come antidoto alla finitezza della vita, alla sua dolorosa insensatezza. E vi emerge sotto la doppia istanza della pratica (sia fisica che mentale, superfetata, all’insegna del nume tutelare Philip Roth) come anche del suo esame freddo, analitico, clinico-curativo (sotto lo sguardo di Freud). Ancora: il sesso si svolge, e talora si avvolge non trovando soddisfazione né fisica né psichica e quindi narrativa, in una perenne ricerca di senso, e trova accoglienza in un dispositivo affabulatorio che procede per quadri e scene, e l’intersecazione di lacerti saggistici (Marcuse, Baudrillard) o brani di romanzi di Roth e Houellebecq, che fatalmente e volutamente interrompono la fluidità del racconto.
Rispetto alla vita agìta che Lavinia non sa intraprendere forse per disabitudine o per paura, ecco: «la vita potenziale è il simulacro di ciò che vorrei fosse il mio quotidiano: la capacità di intercettare le vibrazioni di chi mi sta attorno, volgendole a mio beneficio, suscitando amore e devozione.» È in questo dualismo che Lavinia, ma non solo lei, credo, nell’epoca del trionfo della vita mediata (mediata dalla tecnica, dai massmedia, dalla stessa vecchia cara letteratura) su quella immediata, si gioca la partita dell’esistenza.
Ancora: il sesso come sfiato alle ingiunzioni ordinatorie, regolative, dell’attività lavorativa, di quella volontà superiore e stringente che non solo nei centri sociali è detto il neoliberismo: la Lavinia diurna è invece una attivista, iperformante, non riottosa, tutt’altro, pedina consapevole del Capitale. Altro discorso si apre con il sesso virtuale, quello della nostra epoca, mediato e quasi immediato di internet, che è fenomeno del tutto nuovo per l’ampiezza sensoriale del coinvolgimento rispetto ai vecchi mezzi tecnici (penso al telefono con cui già si gingillava Roth) ma di cui persiste l’ultimo diaframma divisorio. «Vuol dire amare ed essere amati senza prendersi l’incomodo di vivere tutto quel catasto legato alla materialità.» E c’è una scena ad alta densità erotica e poetica ad un tempo di una videochat in cui si concede a sconosciuti in attesa di toccarsi che ha questi esiti di lirica quanto svagata scrittura. «I miei orgasmi sono rapidi e rabbiosi, perché rivendicano il loro diritto a manifestarsi… Ancora una volta il mondo potenziale sa essere casa, quando fuori piove.»
E quindi la gamma delle perversioni e delle parafilie con teoresi allegata, perché Lavinia sembra avere una chiaroveggenza sempre allertata, da sguardo ipermetro. Pensavo l’evacuazione corporale ci venisse risparmiata, ma Lavinia rompe ogni limite, sa che la zona anale ha la sua centralità nel mistero buffo del sesso. Circola perciò della buona merda rabelaisiana nel plot. L’audacia degli incontri sessuali sia virtuali che fisici qui si accompagna a una pronta autodiagnosi: la sessualità eslege o estrema reca sulla pagina scritta una risposta incorporata in cui istinto e ragione si esercitano sapendo ognuno la propria parte. Insomma, pinnacoli di alta e rarefatta consapevolezza psichica e di scrittura, entrambe come dispositivi diagnostici, di referto, si agitano unitamente agli scossoni sessuali in atto.
E poi c’è la materia sensibile, il diario familiare: il rapporto esclusivo con la madre, la morte del padre. Qui la letteratura cede il posto o piuttosto si aggiunge al dolore privato, e nessuno può eccepire alcunché di fronte al sancta sanctorum dell’affettività domestica. Qui la scrittura sembra avere funzione lenitiva e lisergica. Noi si legge e si tace. Anche perché le frequentazioni pregresse della pagina social di Lavinia ci hanno dato informazioni e ragguagli tramite selfies maliziosi oltre che sul suo morbido corpo, sul suo percorso esistenziale con corredo di scatti familiari. Ed è come se — tutte le proporzioni viste — Shakespeare non ci avesse lasciato solo i suoi drammi, commedie e sonetti, ma anche qualche disegno del figlioletto Hamnet o un ritratto della moglie, insomma il nostro privilegio, e insieme contraccolpo di lettori nell’epoca di internet, è quello di avere non più pagine diagnostiche autolenitive (semmai possano esserlo) ad alta diottria letteraria, formidabilmente “scritte” come qui, ma anche album familiari che ci diano informazioni aggiuntive e impaesamenti visivi di interni privati, contribuendo così quantomeno all’ampliamento della nostra conoscenza. Fatto che ci rende fanatici estimatori della Rete e dei social. Quanta miseria morale giri attorno alla borghesia professionale, per noi che abbiamo vissuto piccole vite ordinarie e periferiche, solo da questi potenti aperçus si può cogliere.
Non bisogna prendere queste pagine attendendo una consecutività narrativa, un’azione centrale o parallela, ma solo abbandonarsi alla successione di quadri e scene di ciò che è nei fatti il flusso di un memoir, concedersi dunque alle sue sorprese stilistiche e alla prosa sontuosa e soprattutto precisa di Lavinia che tende all’alto di gamma, spesso raggiungendolo (con qualche eccesso di ricercata sprezzatura talvolta). Senza tacere che molto spesso la frase che contorna una certa fase narrativa (scusate il bisticcio involontario) approda a un sapido umorismo, a sottolineare l’elemento paradossale, prevalente nella intonazione dell’opera come fra i tanti casi narrati, quando ospita Angelo un suo amante virtuale, e dopo aver subìto svagata un cunnilingus lo ospita per una notte e gli fornisce per errore le lenzuola del corredo sacro della famiglia, dove immagina e teme l’ospite rumoreggiare con l’intestino. Dico che la cifra stilistica ironica, “suprema”, paradossale vela punte di malessere esistenziale, tratto che abbiamo imparato a conoscere in Rete di Lavinia, e che qui ri-conosciamo: è un sorriso il suo, oscurato, che sa di ferita.
Quanto alla struttura, all’intelaiatura del racconto, i quadri narrativi assurgono all’equivalente della misura contingentata nei post dei social, mentre il romanzo, come narrazione consecutiva, reclamerebbe la tenuta lunga della nota, la campata unica della volta narrativa che tutto lega e regge: e cioè la “storia” e il “discorso” insieme, l’incatenamento narrativo e il suo significato finale e totale (il “sugo” avrebbe detto don Lisander): ovvero la trama compatta come metafora del reale.
Poco male, in verità. Non certo da oggi il romanzo ha lasciato la sua natura totalitaria di unico rezzaglio gettato a catturare il reale per assumere i contorni del frammento significante, ovvero di una collana di frammenti, un mosaico di tessere. Così qui la nostra Lavinia. Se può giovare il paragone ellittico con chi scrive, anche a me è occorso — nella forma del saggio visto che non scrivo romanzi — di raccogliere post e interventi brevi, e tentarne la coesione organica unitaria trasformandoli in capitoli o paragrafi di un saggio. Questa pare essere, Signori, la Santa Scrittura ai tempi di Facebook, rapsodica e unitaria a un tempo. E Lavinia ne è una ruggente campionessa.
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