Letteratura

Pictorial Trump

18 Giugno 2025

Andrea Rabbito è professore ordinario di Cinema, fotografia e televisione presso l’Università degli Studi di Enna “Kore” e prorettore per le attività di Cinema, Musica e Teatro. È autore di una tetralogia sull’illusione e i rapporti tra il cinema e l’arte della modernità, di cui L’onda mediale (2015) costituisce l’ultimo capitolo. Ha pubblicato La meno-quasi e più-realtà (2023) corredato dalle opere pittoriche dell’artista Andrea Mangione. Ha curato la nuova edizione de Lo spirito del tempo (2017) di Edgar Morin e i volumi La cultura visuale del ventunesimo secolo. Cinema, teatro e new media (2018), La cultura del falso. Inganni, illusioni e fake news (2020). È direttore, assieme a Ruggero Eugeni, della rivista “VCS – Visual Culture Studies”. Nel 2025 esce il suo nuovo studio Pictorial Trump. Il ruolo politico delle nuove immagini.

Andrea Rabbito

Da poche settimane è in libreria con il suo nuovo libro “Pictorial Trump”, 180 pagine, pubblicato per i tipi di Mimesis Edizioni nella collana Eterotopie.

Il volume (aperto dall’introduzione di Ruggero Eugeni e chiuso dalla postfazione di Roberto Revello) si concentra sulla centralità della “picture” per il neopresidente degli USA, descrivendo e analizzando il “turn” – una svolta immaginale e visuale, il pictorial Trump – che ha preso forma.

 

Per prima cosa, ci spieghi il significato di picture.

Il concetto di picture si rifà alle analisi teoriche di W.J.T. Mitchell. Il padre dei visual studies propone una distinzione funzionale per comprendere la dualità dello statuto dell’immagine, sfruttando le possibilità concesse dalla lingua inglese. Da un lato, infatti, con il termine picture intende la struttura fisica e tangibile dell’icona; dall’altro, con image, rimanda alla manifestazione immateriale, mentale che sorge dalla fruizione delle pictures oltre che dalla fruizione di linguaggi che non usano direttamente l’immagine fisica.

Tale distinzione mi interessa per evidenziare, non solo,  come le immagini materiali e quelle mentali siano le due facce della stessa medaglia ma, anche, per indicare come la loro presenza sia continua nella nostra quotidianità. Il concetto di picture che propongo assorbe in sé l’image, permettendomi di non specificare nette distinzioni, e invita a tenere sempre in considerazione quella natura duale messa in evidenza da Mitchell. Ed è un concetto che diviene utile per analizzare le diverse tipologie di pictures che Donald Trump ha proposto a partire dagli anni ’70.

Passiamo a Donald Trump: uomo, presidente, tycoon, icona, simbolo, uomo-immagine. Perché ha deciso di studiare proprio lui?

Ritengo necessaria un’analisi approfondita della politica che Trump conduce perché è paradigmatica di una nuova forma di comunicazione e di un nuovo uso delle immagini tecniche che sfrutta le possibilità concesse dai new media e dai contemporanei sistema di informazione. Trump sta aprendo le porte ad un nuovo modo spregiudicato di espressione e lo sta istituzionalizzando, portandolo a regime. E ritengo, inoltre, necessario indagare il suo operato partendo dai suoi esordi nella scena pubblica, negli anni ’70, per giungere fino ai nostri giorni; questo al fine delineare con più precisione il percorso che ha realizzato e il tipo di strategia che ha elaborato nel corso di questo mezzo secolo.

Ciò che emerge in maniera evidente è, in primo luogo, una volontà chiara, che si staglia sin dall’inizio: ovvero la promozione di sé attraverso la restituzione di un’immagine affascinante e suggestiva, capace di mettere sempre in ombra i propri errori, sconfitte, tracolli economici.

L’immagine che ha prodotto, come goccia martellante sulla  pietra, ha dato vita un solco profondo, ha permesso, cioè, di imporre la sua figura nell’immaginario collettivo, rendendo prima accettabile e infine gradito il suo modus operandi. Il suo secondo ingresso alla Casa Bianca evidenzia come la sua strategia sia stata vincente, riuscendo a proporre un’immagine che non solo ha messo in ombra le sue profonde contraddizioni e aspetti oscuri, ma li ha anche resi tali aspetti accettabili.

Grattando sotto la superficie, Trump è un vincente o un giocatore dazzardo spregiudicato?

È un eccellente giocatore d’azzardo, un gambler, come lo definisco nel mio libro. Come ogni grande scommettitore, Trump si muove sul solco delle grandi perdite e delle grandi vincite. La sua forza sta nell’alzare continuamente la posta in gioco, nel tentativo di andare oltre i suoi errori, oscurandoli per emergere dal caos che crea.

Nato nel mondo immobiliare newyorkese, ha ereditato la tradizione del padre, ma ha compiuto un salto di qualità: non più appartamenti da affittare ai margini dello stato di New York, ma enormi palazzi di lusso nel cuore pulsante di una Manhattan segnata, ai tempi, da criminalità e povertà. Le sue azioni sono state vincenti grazie a figure come Roy Cohn, un avvocato sfrontato e disincantato che lo ha guidato e sostenuto, permettendogli anche di godere dei favori provenienti da ambienti criminali, come la mafia italo-americana.

In qualità di giocatore d’azzardo, Trump non poteva che ambire ad entrare anche nel mondo dei casinò, un mondo nel quale, dopo un iniziale successo, ha subito ingenti perdite economiche.  Tuttavia, grazie alla sua abilità di gambler è riuscito ad emergere dai tracolli per proporre un’immagine di sé vincente, non intaccata dai vari fallimenti che si sono succeduti nel corso del tempo, tali da dichiarare per ben quattro volte bancarotta.

Trump gioca a nascondere i suoi flop attraverso un’immagine di successo che plasma l’immaginario collettivo, facendo dimenticare i suoi errori. Mente spudoratamente trasformando i suoi vizi in virtù, spacciandosi per vittima dell’odio altrui, orientando a far credere che le accuse a lui rivolte siano frutto di una generale invidia. Non a caso i suoi sostenitori parlano della diffusione della TDS, della Trump Derangement Syndrome, la sindrome da rabbia nei confronti del tycoon; un modo astuto del neopresidente di non assumere le proprie colpe e i propri tracolli.

Emblematico a riguardo è il suo cameo in una puntata del 1994 della sit-com Willy, il principe di Bel-Air in cui Trump attaccato dalla giovane Ashley si autoassolve e vittimizza se stesso pronunciando la seguente battuta: “Everybody is always blaming me for everything”, tutti mi danno sempre la colpa di ogni cosa.

Il Trump del primo mandato e quello attuale sono la stessa persona, sono simili tra di loro oppure sono due animali politici diversi?

Nel libro evidenzio tre Trump distinti. Il primo è quello degli esordi, legato a Roy Cohn, che avanza come investitore immobiliare. Il secondo emerge con Vince McMahon, figura chiave del wrestling e creatore di un immaginario mitologico sportivo americano. La conoscenza tra i due si registra sin dalla fine degli anni ’80 quando Trump comincia ad ospitare gli spettacoli sportivi di McMahon nei suoi resort di lusso. Ma è nella “Battle of the Billionaires” del 2007, nella messinscena di una sfida tra i due tycoon, che Trump e McMahon stabiliscono un rapporto di reciproca influenza.

È in quel momento che matura definitivamente l’idea di entrare in politica, spronato dal patron della WWE; e come quest’ultimo ha creato il suo alter ego con cui sale sul palco del wrestling, l’heel Mr. McMahon, anche Trump crea il suo personaggio ricco di eccessi, il suo Mr.Trump, che estremizza il suo carattere, portando sempre più in alto le sue provocazioni e la sua sbruffonaggine. E riuscendo ad essere apprezzato; tanto da riuscire vincente nel suo scontro con Hillary Clinton alle presidenziali del 2016.

Il terzo Trump, quello attuale, non è più Mr. Trump ma è colui che nasce dalle ceneri dell’assalto a Capitol Hill, una vera tragedia democratica, un attacco contro l’idea di Stato legale. Questo evento segna l’avvento di un Trump ancora più spregiudicato, capace di risvegliare un immaginario violento e antidemocratico, legato alle fronde dell’estrema destra insofferenti alle regole civili. E non è un caso che per il suo ritratto ufficiale come Presidente degli USA, Trump abbia scelto di riproporre la stessa espressione di sfida e minaccia con cui fu immortalato nella foto segnaletica scattata dalla polizia della prigione ad Atlanta, dove il tycoon si presentò volontariamente per le accuse di racket.

La comunicazione trumpiana segue un modello replicabile da altri politici oppure è unica e irripetibile?

La comunicazione di Trump è inedita. Nel panorama delle democrazie post-belliche non esiste un precedente simile. E questo è dovuto all’inedito connubio tra lo straordinario potere economico e politico che ha assunto Trump e il suo atteggiamento irrispettoso verso le regole democratiche e incline, in forma spudorata, a puntare al solo interesse personale, aspetto che lo spinge sempre di più ad avvicinarsi e a  soddisfare i desideri di una destra complottista e razzista, violenta e priva di scrupoli.

Vi è, inoltre, un terzo elemento: il ruolo che ha, e soprattutto, che ha avuto, durante la campagna elettorale e i primi mesi del suo secondo mandato, nel sistema dei new media e mass media: non solo attraverso il suo social Truth ma anche attraverso gli accordi con figure come Elon Musk e il social X, o Jeff Bezos e il Washington Post, o ancora Suzanne Scott e la  Fox News, canali di informazione che gli hanno garantito un’influenza senza pari.

Vincendo per la seconda volta le presidenziali non solo è rientrato in quei social dove era stato bannato (Twitter e Facebook) ma è riuscito a rendere proni al suo volere tutti i vari tycoon della Big Tech, come è emerso in modo lampante nel giorno del suo insediamento alla Casa Bianca con Zuckerberg, Bezos, Musk presenti al giuramento, e con Cook dell’Apple e Altman dell’OpenAI che hanno sostenuto con un’ingente donazione l’inaugurazione a Capitol Hill. Così come è anche emerso nel rapporto con Musk, sfruttato fino all’ultimo e poi dileggiato.

Trump ha la capacità di entrate in profondità nel sistema e questo lo rende del tutto unico rispetto alle figure politiche del passato e alle altre del presente. La sua spregiudicatezza è unica, non paragonabile a leader come Orbán o Milei, che operano in contesti di potere più limitati.

Trump segna una svolta, un turn; ed è un cambio radicale che avviene anche in virtù del suo uso politico e propagandistico dell’immagine, da qui l’espressione pictorial Trump.

La sua strategia rischia di diventare un paradigma per le future generazioni politiche, rappresentando un pericolo per la tenuta della democrazia. È un “cattivo maestro” che normalizza l’eccesso e la menzogna. E purtroppo avviene sempre in ritardo la presa di coscienza dell’inganno che trama e in cui si è caduto. Quando ormai l’immagine non compre più la frode, quello è il momento del risveglio generale, come stiamo vedendo adesso. Ma è troppo tardi. Serve per questo prevenire in anticipo attivando le giuste competenze, i giusti anticorpi, per riuscire ad andare oltre la superficie suggestiva dell’immagine offerta.

Nel suo libro dedica un capitolo alla menzogna. Quando un fake diventa mainstream, si normalizza. Questa strategia sembra vincente: la spregiudicatezza di Trump è perdonata perché “tanto lo sanno tutti che mente”. Come spiega questo fenomeno?

Trump rende accettabile ciò che fino a poco tempo fa era inconcepibile in una democrazia. La sua comunicazione violenta e spregiudicata modifica l’immaginario culturale e sociale, creando una nuova dimensione politica. L’operazione condotta mira alla normalizzazione dell’eccesso, all’accettazione dell’atto spregiudicato, illiberale, antidemocratico.

Tuttavia, la sua immagine inizia a incrinarsi: emergono la violenza, l’incapacità di gestire la cosa pubblica e gli errori. Il danno, però, è fatto: la sua strategia comunicativa, basata sulla spettacolarizzazione e la persuasione, è riproposta da altri, come dimostrano figure come Milei, Orbán o Meloni, galvanizzate dal suo successo iniziale.

Quale è stata la sua reazione emotiva davanti allimmagine del White House Faith Office?

Ho visto la straordinaria capacità comunicativa di Trump, che usa l’immagine per nascondere il suo reale intento.

Quell’immagine sintetizza la sua audacia di giocatore di azzardo che alza la posta e bluffa: da un lato, si presenta come “salvatore”, un ruolo lontanissimo dalla realtà, visti i suoi comportamenti verso Zelensky, la Palestina o gli immigrati, definiti “spazzatura” o “alieni” e deportati. Dall’altro, comunica un messaggio chiaro: l’imporsi di un’America bianca, suprematista, che rifiuta e sottomette l’altro.

La presenza in quell’immagine di Kid Rock (cantante simbolo della lotta alla cultura woke, di cui è noto il legame ad un’idea di America sudista), rafforza questo immaginario.

Nonostante le sue menzogne, la colpa maggiore non ricade sugli americani che lo hanno votato democraticamente? La sua immagine riflette il pensiero di una larga parte degli Stati Uniti di oggi? Siamo davanti a una nazione separatista, suprematista, razzista? Il sogno americano è finito?

Trump segna la fine del sogno americano. La sua immagine, che promuove isolazionismo, chiusura e violenza, ha attecchito perché rispecchia il pensiero di una parte significativa degli americani. Le sue politiche di deportazione e la sua influenza su scenari globali – come l’affrancamento dall’Europa e il consolidarsi dei rapporti con Putin e Netanyahu – sono state accettate e volute.

Tuttavia, la responsabilità non è solo dell’elettorato statunitense. I democratici, con la candidatura debole di un Biden in difficoltà fisiche e psichiche, e dimostratisi incapaci di offrire nei giusti tempi un’alternativa validi, hanno una buona parte della colpa. Non sono riusciti a contrastare Trump e a non hanno compreso adeguatamente il pericolo democratico che quest’ultimo incarna. Inoltre, l’eccesso della cultura woke ha spinto molti verso il sostegno al tycoon, visto come una figura capace di tagliare i ponti con il progressismo. Buona parte degli americani ha scelto di guardare dritto negli occhi il Lato Oscuro della Forza, riprendendo Star Wars e l’immagine in AI diffusa da Trump in cui veste i panni di un Jedi (un Anakin Skywalker prima di divenire Dart Fener, viene da pensare).

Nella postfazione del suo libro, il professor Revello* scrive:Come si spezzano gli incantesimi dell’Homo demens? Les non dupes errent, diceva Lacan scherzando con i nomi del padre: i non creduloni possono errare scioccamente, rifiutando lo scambio, la comunicazione con la comunità (illudendosi di poterlo farlo), oppure errare in altra maniera, immergendosi nell’acqua, cercando gli altri, intravedendo dei sensi in questo errare. Pictorial Trump accende una luce ai naufraghi in questo mare di notte.

La citazione di Revello è illuminante. Trump, come un pifferaio magico, sollecita il nostro lato demens, richiamando istanze viscerali. Per spezzare questo incantesimo, serve una coscienza critica capace di leggere le immagini e la comunicazione in profondità, senza cedere a reazioni istintive, a sentimenti di pancia.

Attualmente, mancano gli strumenti adeguati per farlo. Solo sviluppando questa capacità potremo vedere la luce; altrimenti, rischiamo di essere trascinati nel burrone, come nella fiaba del pifferaio magico.


* Roberto Revello è il direttore editoriale della casa editrice Mimesis di Milano ed è docente nel corso di laurea in “Scienze della Comunicazione” presso l’Università degli Studi dell’Insubria.

 

 

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