Letteratura
Solo un miracolo potrebbe
Il più recente volume di poesia dell’autore Kaveh Akbar esprime la sua scissione culturale ed emotiva tra l’origine iraniana e la nuova nazionalità americana mai del tutto assimilata
KAVEH AKBAR (Teheran, 1989) è un poeta ed editor iraniano-americano, autore acclamato di due volumi di poesie e di un romanzo (Pilgrim Bell, Calling a Wolf a Wolf, Martyr!) che hanno ottenuto premi e riconoscimenti internazionali. Si è trasferito negli Stati Uniti quando aveva due anni, crescendo tra New Jersey, Pennsylvania, Wisconsin e Indiana.
I dieci capitoli in cui si suddivide il suo ultimo volume di versi, Il miracolo, sono introdotti da un esergo che suona come un precetto: “Ogni testo che non è un testo sacro è un’apostasia”, ben esemplificante il senso dell’intera raccolta, tesa tra sacro e profano, ritualità religiosa e prosaicità quotidiana, memoria e profezia. L’abisso che separa il sovrumano dall’umano viene straordinariamente rappresentato dalla composizione che dà il titolo al volume, in cui l’arcangelo Gabriele inchioda lo “schiacciabile corpo” di un misero “analfabeta, solo e digiuno”, obbligandolo a diventare imbuto della volontà divina. Creatura miserevole, “grumo” che non sa né pregare né ribellarsi, vuoto di ogni verità, l’uomo è un essere piccolo, “formaggio su un cracker”, illuso di potersi salvare riempiendo il suo tempo “con padri, madri, amanti, lingue, droghe, soldi, arte, lode”. Ma destinato all’irrilevanza, al non ascolto, per cui crudele e inesorabile risuona la condanna: “Gabriele non viene per te”.
L’aspirazione all’assoluto e la volontà ascetica di purezza si scontrano sia con la banalità della vita di ogni giorno, sia con il ricordo di un passato familiare inibente e sofferto: il poeta, scisso tra la fedeltà alla tradizione persiana e le tentazioni offerte dalla smaliziata mentalità occidentale, è consapevole che “La chiave, resa liscia per entrare in ogni serratura, non ne apre alcuna”. Il contrasto tra ieri e oggi, arcaicità e modernità, è trasposto anche stilisticamente nell’alternarsi delle composizioni: il ritmo sincopato della frase e gli insistiti punti fermi che spezzano la continuità del discorso esprimono affanno, respiro che manca, timbro strozzato: “La lunga fessura nel mio muro. S’intreccia. / In una rete. La differenza tra. / Una vera voce e l’altro tipo. / Il modo in cui la sua aria vibra. / Attraverso te. Il modo in cui l’aria. / Vibra. La violenza”. Invece l’espressione armonica, cullante e carezzevole appartiene tutta al respiro calmo e confidente della preghiera del muezzin nella moschea ormai deserta: “La parola di Dio è una melodia, e melodia richiede ripetizione”. La Persia, nel ricordo di chi scrive, esibisce orgogliosamente la propria storia millenaria di magnificenza temporale e spirituale: “Il mio impero mi rendeva / felice perché era impero / e mio”, ma oggi è succube di forze militari disumane, distruttive: “I nuovi missili possono intercettare il battito del / cuore di una mosca / in cima a un mucchio di / macerie da 6000 miglia di distanza”.
L’esilio della famiglia Akbar negli USA diventa salvezza e castigo, con il padre despota infelice, che conosce solo l’inglese dei Rolling Stones, pieno di rabbia per aver perso la salute lavorando trent’anni in allevamenti di anatre, e percependo se stesso e i figli brutti e scuri in un lindo paese di bianchi sopraffattori. Con la madre “così grossa e triste… grembiule imbrattato di farina”, angosciata per il figlio poeta, alcolizzato e omosessuale. Con il fratello maggiore con cui condividere risate irriverenti durante la preghiera serale, inginocchiati sul tappeto, scissi tra devozione ed eresia, mentre i parenti rimasti in Iran vengono imprigionati e uccisi. Famiglia-trappola in cui non riconoscersi, famiglia da amare e rinnegare: “Riesco a fare. / Sparire. / Un’intera famiglia. Lo so. / Così tanti. / Sono stati orribili con te. / Ho dato a ciascuno. / Un numero”. Cosa rimane, dopo l’abiura delle origini? “Sottomissione, resistenza, resa”, “Abbiamo perso / tutto ciò / che bisognava perdere”, “Lasciami piangere il perduto”.
Non più iraniano, non ancora e forse mai americano, se nel paese che gli ha offerto una nuova lingua, una diversa cultura, un lavoro prestigioso, stabilità matrimoniale, benessere economico, riconoscimenti e successo, Kaveh Akbar sente di avere poco in comune. Non l’etica, non la fede, non la visione politica: “Essere americano vuol dire essere? Cosa? / Un cacciatore? / Un cacciatore / che spara solo ai soldi. No, non ai soldi –/ ai soldi”. E si sente sempre nel mirino: “Nella sua scuola elementare in un sobborgo americano, / sulla maglietta di un bambino c’è scritto: / “Lo abbiamo fatto a Hiroshima, / possiamo farlo a Teheran!”
Solo un miracolo potrebbe ricomporre la frattura. Anche i riferimenti intellettuali citati nei versi riflettono una dicotomia insanabile. Ci sono Maometto e il Corano, la mistica sufi Rabi‘a al-Basri e Sant’Agostino, Seneca e John Donne, Gertrude Stein e Walter Benjamin: fonti di ispirazione che approfondiscono il baratro interiore, non aiutano a ricostruire. “Come vivere? leggendo poesie, / facendo respiri poco profondi, / centrifugando la lattuga”. Non basta, e il poeta iraniano-statunitense ne è consapevole: ““La sua illusione più inebriante – / che il male sia solubile nell’arte”.
L’uomo è piccolo, indifeso e irredimibile, “sputo nel fango”: “Io, uomo, sono ciò che non dico”. Qualcosa dice, in realtà, ed è un grido “Pietà. Pietà”.
KAVEH AKBAR, IL MIRACOLO – IL SAGGIATORE, MILANO 2025
Traduzione di Mia Lecomte e Andrea Sirotti. Testo inglese a fronte. Pagine 152
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