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Letteratura

Tempi sfalsati

di Filippo Cusumano
2 Dicembre 2020

Tutto era cominciato in maniera assolutamente imprevista.
Il tono festoso con il quale Anna aveva accolto il mio invito mi era sembrato un segnale incoraggiante.
Così come il suo cercare la mia mano, invece della manica del mio cappotto, all’ingresso della sala buia di quel vecchio cinema di periferia che ora non c’è più.
Segnali incoraggianti sui quali riflettevo senza, però, avere il coraggio di assumere alcuna iniziativa.
Il suo girarsi verso di me, a pochi minuti dall’inizio della proiezione, per baciarmi, mi aveva completamente spiazzato.
Qualcosa della mia timidezza iniziale, da lei scambiata per titubanza o addirittura perplessità, però l’aveva ferita.
Da quella strana partenza nacque tra noi un rapporto che io vedevo come un territorio da esplorare e conquistare giorno per giorno.
Un territorio nel quale lei, precedendomi per disponibilità, entusiasmo e sentimento, sembrava sempre disposta ad aspettarmi e sostenermi , come si aspetta e si sostiene il compagno di strada più debole.
Era, e rimase, per tutto il tempo in cui fu presa di me, come la sacerdotessa di una religione, con me nella parte del discepolo un po’ tiepido, un po’ diffidente.
Peccato che poi, quando, un paio d’anni dopo, la mia fede tiepida divenne incrollabile, sconfinando quasi nel fanatismo, lei fosse diventata la sacerdotessa di un’altra religione.
I gesti di affetto e le premure che, all’inizio della storia, Anna mi rivolgeva e che io accettavo quasi con degnazione, più tardi divennero rari e distratti, con mia grande infelicità e sorpresa.
Non so se esistono rapporti veramente equilibrati nei quali ognuno riceve quanto dà, con lo stesso tipo di appagamento sia nel dare che nel ricevere da parti di entrambi i partner.
Per quanto mi riguarda posso dire che è soltanto un’utopia.
E sottolineo “per quanto mi riguarda”, magari sono fatto male io.

Non penso a lei da molto tempo, ma oggi mi è capitato di farlo.
Da una scatola di scarpe piena zeppa di vecchie foto, ne è spuntata una che sono rimasto a fissare per diversi minuti.
E’ una vecchia foto in bianco e nero.
Io ed Anna siamo nel cortile di un’osteria, seduti sotto una pergola, insieme con alcuni amici.
E’ il giugno del 1982, l’anno in cui l’Italia ha vinto i mondiali di calcio in Spagna.
Nella foto io ho davanti a me la Gazzetta dello Sport.
Sulla prima pagina che la fotografia inquadra distintamente, c’è scritto, a caratteri cubitali: “ROSSI, ROSSI, ROSSI”.
E’ il giorno successivo a quello dell’incontro con il Brasile.
Il centravanti della nostra nazionale, tornato a giocare dopo un anno di squalifica, ha giocato maluccio le prime partite del mondiale, ma l’allenatore ha deciso di “aspettarlo” continuando a farlo giocare titolare.
La partita con il Brasile è decisiva, a loro basta pareggiare per passare ai quarti, noi dobbiamo vincere oppure torniamo a casa.
Rossi segna, il Brasile rimonta, Rossi segna ancora, il Brasile nuovamente agguanta il pareggio. A questo punto qualsiasi squadra al mondo si fosse trovata nella situazione del Brasile avrebbe messo tutti in difesa cercando di far trascorrere gli ultimi minuti per tenersi stretto il pareggio.
Il Brasile però non è una squadra qualsiasi.
Si ritengono i primi del mondo e probabilmente lo sono.
Vogliono vincere per dimostrarlo, come hanno fatto in tutte le partite precedenti.
Ma Pablito quel giorno è in stato di grazia, tutto gli riesce alla perfezione, è la giornata della sua resurrezione, quella che continuerà a ricordare finchè campa come la sua grande giornata. Poi nelle interviste dirà che quella giornata è stata meno importante di quelle in cui sono nati i suoi figli o ha sposato sua moglie, ma siamo autorizzati a non credergli.
Commento la partita con Anna, mentre ci scattano la foto, tutto felice ed eccitato per la partita del giorno prima.
A tavola insieme a noi ci sono altre quattro persone.
Io sto a capotavola, Anna è alla mia destra e accanto a lei ci sono due sue compagne di facoltà. Alla mia sinistra ci sono Giorgio e Stefano, che stavano al liceo con me e che conosco da quando eravamo bambini.
Qualcuno dei presenti sicuramente ha detto qualcosa di molto divertente, perché ridiamo tutti.
Tutti meno due: Anna e Stefano.
La singolarità della foto è proprio questa: quattro persone che ridono a crepapelle e due che rimangono seri.
Fissandosi negli occhi.
Vedendo la foto, non mi accorsi di nulla.
Mi sembrò una bella foto e basta.
Oggi, a distanza di molti anni, riprendendola in mano, non posso che darmi dell’imbecille.
Tutto era accaduto sotto i miei occhi senza che mi accorgessi di nulla.

 

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